giovedì 11 ottobre 2012

I manuali di storia dell'arte e la banalizzazione del sapere

Sono un ormai anziano insegnante di Liceo, che da oltre venti anni cerca di fare il proprio dovere davanti agli studenti senza doversene troppo vergognare. Vi scrivo perché so che siete una brigata, forse anche allegra, di giovani studiosi di storia dell’arte, ben più aggiornati di me sulle trasformazioni in atto nella società, specie sotto il profilo culturale, e che dunque potrete forse chiarirmi il recente destino della nostra disciplina.

Da insegnante ogni anno devo fare i conti con una messe assai cospicua di libri di testo, che i rappresentanti di case editrici grandi e piccole, gloriose e sfrontate, ci rifilano in numero sempre maggiore affinché si possano adottare per i prossimi sei anni scolastici (la nostra disciplina è, pare, immobile come i monumenti di piazza, e dunque i testi si possono tenere invariati per così tanto tempo, perché che cosa mai volete che succeda di nuovo?).
Ultimamente poi la concorrenza si è fatta davvero fitta, al punto che tutti coloro che in casa avevano uno storico dell’arte si sono fatti scrivere un manuale, e il panorama che si presenta all'avventurato docente è davvero completo circa le offerte editoriali e per quello che in Italia ora s’intende per manualistica, dunque per la didattica della nostra disciplina.
Sfogliando i manuali, se ne ricava l’idea di una progressiva banalizzazione della materia. I contenuti sono sempre gli stessi, quelli assolutamente canonici, ma affrontati con una lingua piatta e talvolta scialba, con illustrazioni oramai bellissime ma che sembrano galleggiare nel vuoto. Ogni insegnante di una certa età, lo sappiamo, rimpiange fieramente il vecchio Argan, e la circostanza tiene qualcosa del patetico apprezzamento dei vestiti di organza e dei bicchierini di rosolio in salotti sul far della sera. Tuttavia, al netto della nostalgia dei tempi andati che come è noto sono sempre i migliori, il rimpianto ha qualcosa di autentico, perché quello fu un testo che aveva un forte impianto ideologico, dunque un punto di vista in qualche modo onnicomprensivo, ma capace di sfidare gli studenti, perché faceva dell’arte un vero e proprio problema culturale. L’arte come accadimento storico e linguistico, che necessitava di un’attenzione non casuale e di altrettanta pazienza.
Oggi invece i manuali divulgano un sapere talvolta sciatto, assolutamente anodino, dove i fatti storici si susseguono in una striscia temporale meccanica ed denemenziale… C’è un prima e un dopo, e quello giustifica sempre questo… Le schede a corredo dell’impianto centrale (sulle tecniche, sui termini di particolare pregnanza semantica etc), non offrono esiti per possibili diversioni, ma sono anch’esse l’approfondimento di un impianto storico visto come monolitico e inscalfibile… Come se, lo dico per gioco, la teleologia vasariana esistesse ancora: qui si comincia, e siamo agli inizi; qui si finisce e, ci credereste, quello che è avvenuto è un vero progresso!!
Pochissimo poi sopravvive dei pur ricchi accertamenti di certa storiografia – neppure recentissima – sui rapporti tra arti figurative e letteratura. Niente resta dei problematici e attualissimi rapporti tra arti figurative e potere politico (e dunque sulla funzione politica delle arti). Ancora meno sopravvive della convinzione che il fare storia sia esso stesso un racconto, dunque una particolare forma di letteratura che esprime un punto di vista. Che insomma il passato non sia una ‘cosa’ (in qualsiasi modo lo vogliamo chiamare) compatta e stereometrica, ma brulicante di contraddizioni e di tensioni. In un bel romanzo francese del 1885, si accennava al quadro di un artista che stava riscuotendo un successo straordinario: ma non era egli un impressionista, come ci saremmo aspettati, bensì un pittore accademico, di quelli noiosi e per niente d’avanguardia. Bisognerebbe ricordarselo. La storia raramente è rassicurante, e pur concedendo, come sosteneva quel signore, che possieda una propria razionalità, questa non è in genere identificabile con la facilità. Lo sanno i nostri manuali?
E’ una storiografia giocata al risparmio – quando va bene -, o consolatoria, quando va male. E siccome mi hanno insegnato che i mezzi vanno d’accordo con i fini, è forse un caso che questo accada ora, in un momento in cui è sempre più evidente come il crollo delle vecchie ideologie renda ridicola ogni pretesa volontà di dare un senso alla Storia?
Poi esiste un secondo aspetto. Negli ultimi anni i manuali sono sempre accompagnati da due sussidi didattici. Il quaderno degli esercizi per gli alunni; la guida per l’insegnante.
Vediamo il primo. Il tipo di esercizi proposti da tutte le case editrici è agghiacciante! Riducono la complessità della storia a pura nozione, la ricchezza dei cambiamenti storici a fastidioso orpello… Cosa ha fatto Donatello? Il David (quale poi non sappiamo!), la Centauromachia o Ilaria del Carretto? Chi era Renoir, un pittore impressionista (che poi ci sarebbe da discuterne), accademico (perché no? Anche!!!), o astratto? Ecco, rispondere con le crocette giuste a queste domande: per il ministero, gli ispettori e le case editrici, significa sapere la storia dell’arte!!!
Quanto poi alla guida per l’insegnante siamo al delirio autentico. Ci sono i vari argomenti e la foto delle opere più importanti. La guida ti dice quali sono le cose che bisogna sapere di quell’argomento e di quella foto, che cosa bisogna sentirsi dire dagli studenti, dunque il nucleo di conoscenze essenziali. Caravaggio? Era un pittore naturalista, ovvio … Un Crocifisso di Giunta Pisano? L’importanza del Cristo morto, il corpo piegato, il superamento dei moduli bizantini … Picasso? Che era cubista, che aveva riflettuto su Cézanne etc… L’idea che sta in fondo a questi suggerimenti è piuttosto semplice: rammentiamo agli insegnanti quello che loro non hanno più nessuna idea di poter o dover chiedere… Ignoranti? Addormentati? Frustrati? Chissà, ma forte è la tentazione di pensare che la risposta giusta sia la prima.
Ora, di fronte a una cosa del genere che bisogna fare? Attraverso la manualistica scolastica mi sembra che emerga una trasformazione potente della nostra disciplina e forse, più in generale, una modificazione pericolosa del fare storia e di divulgarne i contenuti. Un’arte senza la storia, e l’immagine ridotta a puro corredo, a illustrazione.
Anni fa a Firenze si tenne un convegno molto paludato sull’insegnamento della disciplina… Come ogni convegno accademico che si rispetti, vennero invitate a parlare molte di quelle persone che non avevano la più pallida idea della didattica scolastica, perché il nobiluomo deve tenere i cattivi odori a distanza. Che ne dite se cominciassimo a riparlarne?
La Storia, come diceva un bel signore qualche anno fa, è sempre storia contemporanea. A parer mio è evidente allora che la condizione dello studio della Storia dell’Arte non sia da intendersi come bega accademica, come ennesima e compiaciuta attività erudita, ma come occasione per riflettere un poco su questi anni avventurati, su come raccontarli e su come leggerli. E per sapere quando spengere la luce sul comodino.

Grazie,
Stefano Renzoni

Lettera pubblicata sul numero 30 (agosto 2012) dell su Predella, rivista di arti visive dell’Università di Pisa: http://predella.arte.unipi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=241&catid=85&Itemid=112

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