martedì 11 dicembre 2012

Il cantiere della Domus Aurea - Il blog


Quando si mantiene viva l'attenzione su un monumento delicato e in difficoltà come la Domus Aurea è sempre un qualcosa di positivo. Questo blog mi sembra un'ottima iniziativa di valorizzazione e divulgazione.

Il Cantiere della Domus Aurea” si apre al web, con l’intenzione di raccontare giorno per giorno i lavori in corso. Un diario che informa sul progredire dei progetti e degli interventi di consolidamento delle strutture e delle decorazioni, delle sperimentazioni in corso, ma anche delle attività di ricerca, di documentazione.

Vogliamo, con questa iniziativa, far conoscere meglio i processi del nostro lavoro che, per le complesse problematiche conservative (strutturali, climatico/ambientali, paesaggistiche) fanno della Domus Aurea un laboratorio di attività specialistiche che trovano una sintesi in un unico progetto generale.

Per questo motivo diamo voce alle tante professioni impegnate nel monumento (archeologi, architetti, ingegneri, restauratori, fisici, chimici, biologi, esperti del verde e del paesaggio, tecnici).

Il blog, realizzato in open source e senza oneri per la Pubblica Amministrazione, è curato dallo staff interno della Domus Aurea che lo aggiornerà periodicamente con notizie e schede. Speriamo anche di favorire dialogo e discussioni, che cercheremo di mantenere vivi.

Ho assunto tre anni fa la responsabilità della Domus Aurea in una fase molto difficile della sua esistenza, accentuata ancora di più dal crollo del 30 marzo 2010. Da pochi mesi si è aperta una nuova fase determinata dalla decisione del Governo (OPCM del 25.04.2012) di revocare il Commissariamento del monumento (in vigore dal 2006) e di restituirne alla Soprintendenza la piena gestione.

Il mio punto di vista, in quanto Direttore del Monumento in servizio presso la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (MiBAC) che ha in consegna il bene, è quello della sua tutela e valorizzazione, ma tiene conto degli aspetti legati alla sua appartenenza ad un contesto urbano a continuità di vita e dei temi legati al suo inserimento paesaggistico in un Parco storico della città.

Credo, d’altra parte, che sia molto importante soprattutto in questa fase storica della vita della Pubblica Amministrazione, operare nel segno della trasparenza, cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla complessità della nostra azione attraverso l’informazione sul lavoro, sui progetti e sui problemi che si incontrano.

Fedora Filippi Direttrice scientifica della Domus Aurea

lunedì 10 dicembre 2012

Il film sull'arte e altri ebook

Dall'archivio online dell'Università Ca' Foscari di Venezia segnalo una serie di tesi di dottorato in storia dell'arte scaricabili in pdf. 


Tra i tanti Paolo Veronese: dall'immagine al silenzio,  Gli oggetti e la loro simbologia in Arancia Meccanica e Shining di Stanley Kubrick, tra individuo e l'universo del cinema. , Arte e contestazione - Arte in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta , Riflessione sul senso tattile nell'arte contemporanea , Dall'iconoclastia all'iconoclash ricerche sulle strategie iconoclaste contemporanee.

Mentre metto in evidenza questo

Immagini dal film Dreams that Money can Buy di Hans Richter, 1947.
Il film sull'arte e la Mostra internazionale del cinema di Venezia

La tesi affronta il dibattito nato attorno al film sull'arte dal dopoguerra alla fine degli anni Cinquanta attraverso la ricostruzione della storia e delle iniziative delle istituzioni internazionali create al fine di una sua regolamentazione, utilizzo e circolazione. Una volta individuato e contestualizzato il ruolo dell'Unesco, la prima parte della tesi segue la nascita della Fédération Internationale du Film sur l'Art nel 1948, i protagonisti e i successivi congressi che ne stabilirono obiettivi e politiche d'intervento, per poi passare ad altre istituzioni e all'osservazione dei differenti cataloghi prodotti a livello mondiale. La seconda parte si focalizza sul contesto dei festival internazionali e, in particolare, sulla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Vengono così affrontati tanto la produzione dei film stessi quanto il dibattito critico e metodologico che intorno al genere andava definendosi.

E tra gli ebook segnalo anche l'ultima pubblicazione del Centro Internazionale Studi di Estetica: Elisabetta Di Stefano, Iperestetica: Arte, natura, vita quotidiana e nuove tecnologie.

lunedì 3 dicembre 2012

Storia dell'arte coatta


Come spiegare la storia dell'arte in romanaccio? Ci pensa questo blog: L'arte spiegata ai truzzi.

Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1480/1485 – Venezia, 1576)
Amor sacro e amor profano
1515 ca, Roma, Galleria Borghese, olio su tela (118 × 279 cm)

E mo io so sicura che tte stai a pensà, a pischella de sinistra che è tutta acchittata che pare na principessa è aamore sacro, e quella de destra gnuda che pare na zoccola è aamore profano.
Ma fattoo dì, sce sta tutto n’artro significato, e se a smetti n’attimo de smanettà co sto cellulare too spiego.
Tanto pe comincià, tocca sapè perché Tizziano ha fatto sto quadro. ‘N pratica sce staveno due che se staveno a sposà, de du famije che erano stati nemisci pe ‘n sacco de tempo, e mo sti due se sposeno come pe ffà pasce, e er marito je voleva da regalà sto quadro aaa moje, e je disce a Tizziano, je disce “A Tizzià, te che sce capisci e se bbravo, famme sto quadro qua che io nun so come spiegattelo ma deve da esse tipo che spiega in che consiste er matrimonio.” Carcola quinni che Tizziano s’è messo llà e sto quadro è come che fosse na ricetta pe er matrimonio perfetto, tipo quii libbri che vendono “Come fa funzionà er matrimonio”. Sì o so, te drentro na libreria sce sei entrato pe sbajo solo na vorta che a polizzia te stava a core appresso. Vabbè.
Tornamo ar quadro. Allora, a pischella a sinistra è vestita come na sposa, perché er matrimonio è ‘n contratto, du persone che se sposeno de fronte aaa legge pe mette i bbeni in comune e mette ar monno li fiji leggittimi e riconosciuti. L’arta, quella gnuda, te sta a ddì che er matrimonio è pure ‘n sacramento, che nfatti uno se sposa in comune oppure ‘n chiesa ma se tte sposi ‘n chiesa perché sce credi vale pure ar comune oppure te sposi ar comune perché nte ne frega ‘n cazzo ma all’epeca de Tizziano nun se poteva fa perché se discevi che daa Chiesa nte fregava ‘n cazzo te mettevano ar gabbio.
Insomma, quella llà è gnuda perché er sacramento der matrimonio è na cosa spirituale, come ‘n idea, è na cosa de purezza, e anfatti scià ‘n mano na fiamma, che va verso er cielo, come a ddì, Signò, l’amore nostro o dedicamo a tte.
Ste du pischelle poi stanno sedute su na fontana che pperò na vorta era na tomba. Na tomba dell’antichi romani, che sse chiama sarcofago, però riempita d’acqua. Scioè, Tizziano te vole dì, a morte po ridiventà vita, che mo ste du famije se odiaveno e se ammazzaveno pe strada, ma mo che se sposeno diventano tuttamisci volemose bbene tarallucci e vino.
E sce stà un amorino, pare n’angioletto ma è Cupido, che se usa pure anfatti a san Valentino e vor dì amore, e cche fa? Ammischia l’acqua carda e quella fredda, come a dì, se tte sposi a temperatura ggiusta daamore che sce devi avè è né cardo né freddo, na cosa ggiusta, scioè tu moje n’è n’estranea e je devi volè bbene ma n’è manco na puttana che state a scopà ogni du minuti. Armeno all’epeca se pensava ccosì.
Quinni vedi che ogni cosa scià ‘n significato. Pure su o sfonno, er castello e a cchiesa so n’artra vorta er civile e er religgioso, e i cani so’ a federtà, che pure è ‘mportante ner matrimonio, e i coniji se sa, vor dì tanti fiji, e…ma che tte sei addormito?

giovedì 29 novembre 2012

Il nudo più bello della storia del cinema


Le retour à la raison (II ritorno alla ragione)
(1923, b/n, muto, 4’)
interpreti: Alice Kiki Prime (Kiki de Montparnasse)

Realizzato in una sola notte, fu presentato tra fischi di disapprovazione alla storica serata del “Coeur à barbe”, organizzata da Tristan Tzara nel 1923. Privo di qualsiasi struttura e costruito con frammenti di pellicola impressionata, senza alcuna concatenazione logica, il film fece scandalo, secondo le intenzioni dell’autore. Man Ray infatti “filmò i movimenti di una spirale di carta ... e cosparse la pellicola vergine di spilli e di vari oggetti d’uso comune come bottoni c fiammiferi, i quali impressionarono la pellicola in modo tale che alla proiezione sembrava di assistere a una curiosa caduta di neve metallica. Un corpo di donna nuda e delle luci da fiera sono i soli elementi concreti di questo film.” (Ado Kyrou)

Man Ray che aveva lavorato intensamente nei campi della fotografia, della progettazione di oggetti, in un clima di ricerche prettamente dadaista si accosta al cinema intorno agli anni Venti. Il primo film di Ray "Retour à la raison", presentato nel 1923 durante la famosa serata dadaista "Coeur à barbe", fu realizzato praticamente in una sola notte con diversi materiali cinematografici, in parte già pronti.

Si può considerare come, almeno nella tradizione che prima ancora di tramandarci la copia ce ne ha tramandato la mitologia, un film confezionato "all'improvviso", una sorta di collage nato in laboratorio di montaggio. Esso dura pochi minuti ed è costruito al di fuori di ogni struttura formale e contenutistica, pochè vuole essere assolutamente provocatorio, come anche il titolo dimostra: infatti era tutto fuorchè razionale o razionalmente determinato.

Gli strappi reali della pellicola che si sono verificati nel corso della tumultuosa proiezione (anche questo fa parte della mitologia oramai inseparabile dal testo visivo) sono omologhi degli strappi metaforici del tessuto discorsivo e narrativo che il film realizzava. Le porzioni di pellicola impressionata senza ricorrere alla cinepresa, ma per semplice "contatto" di oggetti comuni (spilli, puntine da disegno, pepe e sale) sono altrettanti "strappi" alla scena illusoria in profondità prospettica della "storia" inscenata dal cinema narrativo (che eredita la scena prospettica della pittura e del teatro): un calcolato effetto di shock ci riporta alla superficie dello schermo, della pellicola, dell'emulsione.

Da questo punto di vista, il piccolo film di Man Ray realizza con la pellicola qualcosa di simile all'assemblaggio di ready made della "pittura" dada. D'altra parte, l'intrecciarsi degli elementi più sfrenatamente casuali con altri di raffinatezza fotografica molto ricercata (i sottili arabeschi dell'ombra di una tenda sul corpo nudo della modella, nella parte finale) ci portano dentro il procedimento tipico dell'arte di Man Ray, basato su un dosaggio di "caso" e "necessità", improvvisazione e rigore formale. (Man Ray e il cinema)




martedì 27 novembre 2012

Apocalittici e integrati

Interessante articolo (con relativo dibattito nei commenti) del blogger Luca Rossi (Whitehouse) circa atteggiamenti e modi operativi degli artisti di ultima generazione racchiusi, pare, in un vuoto citazionismo di maniera e incapaci di formulare il nuovo. Da artribune. Insieme all'articolo voglio sottolineare anche l'ottimo blog di Michele Dantini, saggista e critico, professore di storia dell'arte contemporanea in Piemonte, autore di puntuali articoli circa l'odierno e marcio sistema dell'arte e della cultura.

Luca Rossi - Giovani Indiana Jones

"Ultimamente moltissimi giovani artisti fanno sistematico riferimento alla storia e al passato. Assistiamo a un vero feticismo della citazione: peschiamo da Wikipedia e formalizziamo come vuole la moda, sfogliando le fanzine giovanilistiche Mousse eKaleidoscope. La tecnica è quella di lavorare su immaginari accattivanti, esattamente come fa il cinema o la letteratura. Ma mentre il cinema e i libri hanno la possibilità di calibrare una certa complessità espressiva e narrativa, l’arte sembra limitarsi a proporre gadget-feticci di quel determinato immaginario. L’opera, come dato finito e oggettuale, sembra paradossalmente tradire la complessità dell’immaginario o dell’evento storico che abbiamo deciso di citare.
È come se il giovane artista dovesse riempire ostinatamente un vuoto, o volesse fare a tutti i costi l’artista. La citazione del passato fornisce un contenuto sicuro, spesso non criticabile e che può essere formalizzato in mille modi accattivanti: i calchi dell’aula bunker Anni Settanta (Rossella Biscotti, Il Processo, 2010-11.), le sculture e le facce diavolesche dei babilonesi, il rame e il piombo della centrale nucleare dismessa, le dimensioni della cella di Aldo Moro (Francesco Arena, 3,24 mq, 2004), riferimenti all’occultismo e alle donne barbute, alla psicologia incrociati con immaginari di inizio secolo, recupero delle lettere degli anarchici, recupero del giornale di quel dato giorno del 1961 ecc. Giovani Indiana Jones scatenati che, come fossero nel fast food della storia, imbarcano citazioni e riferimenti con la stessa facilità e leggerezza con cui postano su Facebook.


Francesco Arena – 18.900 metri su ardesia (La strada di Pinelli) – 2012

Se il presente e il futuro sono incerti, meglio rifugiarsi in un passato percepito come mitico. È come se non ci fosse la volontà e la capacità di risolvere il presente, ma fosse sempre necessario aggrapparsi e fare riferimento a una memoria rassicurante. Non è la memoria nozionistica del passato e della storia che può migliorare il presente e il futuro, ma la capacità di adottare modalità e atteggiamenti migliori a fronte di errori passati. Fare i calchi dell’aula bunker degli Anni Settanta, piuttosto che ricreare la cella di Aldo Moro, significa proporre modalità e procedure che così presentate risultano fini a se stesse: la modalità del calco in cemento e la modalità del falegname-arredatore. Vedere i calchi dell’aula bunker o entrare nella cella di Aldo Moro ci forniscono un momento fugace di godimento voyeurista, ma poi le opere permangono come feticci più o meno originali.
Non è la nozione storica che risulta essere interessante, ma è la capacità di aggiustare e modificare procedure e modalità in funzione della memoria storica. Questi giovani sono ripetitori della nozione-citazione, ma non suggeriscono alcuna modalità-procedura-atteggiamento per risolvere il presente. La cosa più spiacevole è che sembra mancare consapevolezza dell’opera come progetto: ossia sembra che i risultati che questi giovani Indiana Jones si prefiggono non corrispondano ai risultati reali. Inoltre, costoro possono fare affidamento su una folta schiera di curatori nazionali e internazionali che contribuiscono a diffondere l’uso di queste pratiche citazioniste: questo perché oggi le grandi mostre internazionali tendono ad assomigliare a luna park per adulti dove a ogni “giostra-installazione” è necessario proporre un diverso immaginario accattivante.


Jerry Saltz

Una certa retorica del passato fornisce la possibilità di essere accettati in un Paese per vecchi, in un Occidente per vecchi. Ne risulta un fatto significativo: sembra che i giovani vengano pagati per il loro silenzio e la loro arrendevolezza dalla stessa Nonni Genitori Foundation che agisce verso di loro come ammortizzatore sociale. Una “generazione nulla”, come la definisce Jerry Saltz [1], che si lamenta sistematicamente di “un mondo che fa schifo” ma che poi non riesce a fare nulla. E che procede nel più banale individualismo opportunista.
Dall’Italia molti scappano come eterni Peter Pan, sospesi tra una residenza d’artista e un’altra, sempre impegnati a riempire ostinatamente quel vuoto con qualcosa che possa risolvere il loro disagio. Costoro non scappano solo dall’Italia schiacciati da esterofilia e complessi d’inferiorità, ma scappano anche da un presente e da un futuro che non sanno e che non vogliono risolvere. Tutto andrà bene per loro, nel ristretto sistema dell’arte, fino a quando potranno lavorare bene alle pubbliche relazioni. E fino a quando la Nonni Genitori Foundation continuerà a pagare.

Luca Rossi

[1] Generazione Nulla, “Flash Art Italia”, n. 295, luglio-agosto-settembre 2011, p. 64.

Michele Dantini - Geopolitiche dell'arte


“…La storia postbellica dell’arte italiana è segnata dagli equilibri geopolitici e culturali della guerra fredda, e da quello che potremmo chiamare il marketing delle identità locali. Come confrontarsi con una tradizione illustre, la propria, se si appartiene a una nazione che si scopre bruscamente periferica? E come ripristinare dialoghi cosmopoliti dopo decenni di isolamento?
La «mutazione» si compie tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento: se un artista come Fontana rimane fedele a un mondo la cui capitale è Parigi, e il cui faro indiscusso è Picasso, Manzoni apre a geografie artistiche atlantiche. Intende la citazione non come mera ripetizione o gioco culturale, ma come pratica distorsiva, satirica e fantastica. «Plagio» e «furto» iconografico, ai suoi occhi, sono modi attraverso cui la Periferia può tornare a parlare di sé e modificare i rapporti che la legano al Centro.

Critici e curatori qualificati partecipano a pieno titolo al negoziato tra culture artistiche e comunità economiche e politiche. Si tratta pur sempre di destare un’idea di Paese, ritrovarla in questo o quell’artista e rilanciare sul piano sovranazionale. Mostre e interpretazioni modellano fantasie comunitarie e progetti di identità cui gli artisti corrispondono (o cercano di sottrarsi) nei modi più diversi, con repliche figurate e tecniche congeniali…” (Link)

sabato 17 novembre 2012

L'utopia dell'isola di Hashima

Con questo post voglio inaugurare una nuova tag, le città invisibili, che trattano di quelle che chiamo città dello spirito dove lo spazio a misura o meno d'uomo ispira il sublime. La buona architettura è quella che sa invecchiare. Probabilmente è l'utopia della costruzione ad aver formato quest'isola che pesca la sua forma nei nostri sogni ma che, resa scheletrica dall'abbandono, ci mostra un'immagine sorprendentemente affascinante. E' in fondo il fascino della rovina, di una nuova acropoli moderna e industriale, ma anche l'angoscia dell'horror vacui, la struttura labirintica, il gioco di prospettive, come si ci trovassimo di fronte ad una costruzione della mente che sa tanto delle carceri piranesiane quanto di rovine antiche. E' forse questa è la sua contraddizione.



L'isola di Hashima sperduta tra le 505 isole disabitate della prefettura di Nagasaki, in Giappone, è un luogo spettrale e affascinante, meta di un insolito turismo. L'isola è chiamata ancheGunkanjima, che significa "nave da guerra", per via dell'aspetto che assume il suo profilo sul letto dell'Oceano: un'isola grigia e decadente, circondata da un grande muro di cemento e i cui edifici prossimi al collasso vanno a delineare la forma di una specie di grande nave da guerra. Questa misteriosa isola fu costruita sopra un'importante miniera di carbone che, nel periodo compreso tra il 1887 ed il 1974, contribuiva notevolmente a rifornire di energia la città di Nagasaki, che si trovava ad un'ora di navigazione. Era un polo minerario talmente importante che decisero di costruire centinaia di appartamenti per i minatori, con scuole, ospedali, palestre, cinema, bar, ristoranti e negozi per le rispettive famiglie. Furono costruiti anche i primi edifici in cemento armato della storia del Giappone, per difendersi dai frequenti tifoni che si abbattono su quelle zone. Nel 1959 l'isola di Hashima arrivò ad avere la più alta densità di popolazione mai registrata in tutto il mondo: ben 3.450 abitanti per km². Gli appartamenti erano come delle celle per monaci, piccoli e soffocanti, e gli abitanti erano suddivisi in "caste": minatori non sposati, minatori sposati e con famiglia, e dirigenti della Mitsubishi e insegnati, che potevano persino godere del lusso di avere una cucina e un bagno privato. La sopravvivenza di Hashima dipendeva interamente dai rifornimenti via terra e se un tifone si abbatteva sull'isola, i suoi abitanti dovevano cercare di sopravvivere per giorni in attesa della prossima nave cargo.

Nel periodo di massima attività l'isola produceva 410.000 tonnellate di carbone all'anno. L'isola di Hashima fu abbandonata dopo che il petrolio iniziò a sostituire il carbone come fonte di energia. Dal 1974 Gunkanjima è una città fantasma. Nonostante sia stato un luogo di sofferenza, di stenti e di morte, Hashima rappresenta un importante pezzo di storia per il Giappone e il suo sviluppo industriale post-bellico. Oggi l'isola è un cimitero di edifici decadenti e destinati al crollo ma, proprio per il suo fascino spettrale, è meta di appassionati di esplorazione urbana e di cineasti. Nel 2005 fu concesso ad alcuni giornalisti di accedere all'isola e da allora tutto il mondo è venuto a conoscenza dell'esistenza di questo luogo incredibile. Fino al 2009 si rischiava il carcere se si provava a mettere piede nella città fantasma ma, nell'aprile di quell'anno, una parte dell'isola è stata riaperta per le visite, anche se, a causa delle condizioni del mare, è possibile accedervi solo per 160 giorni l'anno.








lunedì 12 novembre 2012

La madre dei Caravaggio è sempre incinta

Sensazionalismo, il male dell'arte
Da Michelangelo a Caravaggio: la filologia è ridotta a burla 

E le ossa di Monna Lisa? Dove saranno, le ossa di Monna Lisa? Quando salteranno fuori, in un tripudio di titoloni, le ossa di Monna Lisa? Sono queste le domande provocatorie poste dal libro che lo storico dell'arte Tomaso Montanari ha dedicato alle «scoperte sensazionali» che periodicamente irrompono sulle prime pagine guadagnandosi uno spazio enorme. E relegando nella pressoché totale disattenzione le opere che stanno andando a ramengo, dal crocifisso di Vasari nella chiesa napoletana di San Giovanni a Carbonara agli affreschi quattrocenteschi della novarese Santa Maria Nova di Sillavengo fino all'agonia della reggia di Carditello.

Tomaso Montanari, «La madre dei Caravaggio è sempre incinta» (Skira, pp. 75, € 9) Il pamphlet ha un titolo sbarazzino, La madre dei Caravaggio è sempre incinta  ma è un'invettiva micidiale contro il modo in cui è trattato il tema delle ricorrenti «scoperte» di un nuovo capolavoro ritrovato negli scantinati, tra le macerie di una chiesa, nella soffitta di una vecchia zia defunta o, caso più probabile, nel magazzino di un mercante d'arte che un bel giorno scova dietro una crosta un «pezzo meraviglioso» da milioni di euro.

L'idea di confermare se Montanari abbia o meno ragione, nello svergognare l'attribuzione a Michelangelo del Cristo ligneo comprato a caro prezzo dal governo italiano ai tempi di Sandro Bondi o a Caravaggio dei «cento disegni mai visti» dal valore folle di «circa 700 milioni di euro» scovati là dove erano sempre stati da «due perfetti ignoti agli studi caravaggeschi», non ci passa per la testa. Cadremmo nello stesso tranello: è bene che della valutazione dei Caravaggio si occupino quelli che per una vita hanno studiato Caravaggio.

Ma è difficile non essere d'accordo con Montanari quando scrive: «Se vogliamo un brivido anticonformista e un potente antidoto contro la superficialità e la cialtronaggine abbiamo bisogno di coltivare i dubbi». Altrimenti, il rischio è di cadere nel pasticcio misterioso della seconda Medusa attribuita (lo storico non è d'accordo: «Basta guardarla per capire che è una copia...») a Caravaggio e lanciata dalla società «Once - Extraordinay Events»: «In una puntata di Chi vuol esser milionario, Gerry Scotti ha chiesto quale soggetto fosse stato dipinto da Caravaggio una sola volta: la concorrente ha indicato la Medusa degli Uffizi. E aveva perfettamente ragione: ma il pubblico da casa è insorto, perché la campagna promozionale era stata tanto pervasiva che tutti sapevano che esisteva un'altra Medusa. Il finale comico è stato che, nella puntata successiva, Scotti si è dovuto scusare».

Così come è difficile dar torto a Montanari quando se la prende con un eccesso di sensazionalismo e una caccia all'«evento» che rimuove il degrado del patrimonio artistico italiano (nessuno fa manutenzione sul mosaico del «cave canem» di Pompei in attesa chissà della sua «riscoperta») e assorbe tutto nell'ottica del marketing, fino a produrre una corsa allo scambio di opere d'arte (di per sé, ovvio, legittima e spesso giusta) così ossessiva da far pensare a certi annunci peccaminosi dei club di «scambisti»: «Tiziano giovane, amante natura, cerca Giotto maturo per caldo scambio volumi-colore»; «Leonardo sacro, ma ambiguo, cerca Mantegna litico per scambio morbido-duro; valuta anche Caravaggio, max 1605...».

C'è chi contesterà lo studioso fiorentino accusandolo di essere lui pure pieno di certezze che manifesta con ironia tranchant, come quando liquida un secondo Cristo ligneo «di Michelangelo» trovato secondo monsignor Rino Fisichella nel Patriarcato melchita del Libano: «Qui non si tratta di opinioni scientifiche, ma di un problema di minima alfabetizzazione: se attribuire a Michelangelo il Cristo comprato da Bondi è come confondere un leone con un gatto, attribuirgli il Cristo di San Marino è come scambiare un leone e un merluzzo».

Ma è difficile dissentire quando, sorridendo del sindaco dell'Argentario che vuole costruire un mausoleo per ospitare le presunte ossa di Caravaggio oggi custodite in banca (sic...) perché «inaugurare la tomba "di Caravaggio" è più semplice che tenere pulite le meravigliose spiagge», contesta che «mentre l'esercizio abusivo della professione medica è un reato, chiunque può provare a proporsi come storico dell'arte». Assurdo: «La capacità di riconoscere gli autori delle opere d'arte non è una dote innata, una rabdomanzia, un fiuto. È invece il frutto di un lungo e faticoso esercizio, una tecnica che si impara e che si insegna...». Certo, spiega, «le attribuzioni sbagliate sono sempre esistite» ma «le bufale sono un'altra cosa: non sono errori scientifici (legittimi, e inevitabili), ma creature extrascientifiche nate al di fuori di ogni serio protocollo di ricerca, a uso e consumo dei media».

Cosa fare? Vale la pena di dare vita, per Montanari, a un Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulla storia dell'arte che «potrebbe facilmente verificare i singoli casi, contattare i migliori esperti dei singoli campi e fornire in tempi rapidi una risposta» prima che «il Caravaggio di turno fosse sbattuto in prima pagina». Il tutto nella scia del Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, presieduto da Piero Angela e composto da Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia, Silvio Garattini, Margherita Hack, Tullio Regge, Giuliano Toraldo di Francia, Aldo Visalberghi e Umberto Eco. Il quale arrivò a inventarsi, contro i ciarlatani, il premio «Bufala d'oro».


Compare invece nella discussa mostra Caravaggio e sues seguidores, realizzata in Brasile, a Belo Horizonte (Casa Fiat de Cultura, 22 maggio/15 luglio 2012) e San Paolo (Pinacoteca, 25 luglio/ 30 settembre 2012), e poi in Argentina, a Buenos Aires (Museo Nacional, 22 ottobre/15 dicembre 2012), nell'ambito dell'evento 'Caravaggio e i suoi seguaci: conferme e problemi' curato dalla soprintendente per il Polo museale della città di Roma Rossella Vodret, l'ennesimo Battista attribuito al Maestro, un San Giovanni Battista che nutre l'agnello di collezione privata . La mostra, tra l'altro, presenta come autografo anche l'improbabile San Gennaro decollato.


Il catalogo completo della mostra è scaricabile da questo link: http://www.casafiatdecultura.com.br/admin/catalogos/carava.pdf

domenica 11 novembre 2012

Digitalife 2012

La Fondazione Romaeuropa presenta la terza edizione di Digital Life con un percorso modulare che si articola in tre sedi espositive dal forte valore simbolico. Il MACRO Testaccio indagherà il rapporto tra arte visiva, arte digitale, performing arts e fotografia, centrando il suo sguardo nella quarta dimensione della creazione, in uno spazio in cui i confini fra i diversi linguaggi si dissolvono. L’EX GIL declinerà i linguaggi della creatività digitale e delle sue fertili connessioni con le tecnologie più avanzate e sperimentali. Un progetto aperto e visionario che offrirà uno sguardo spettacolare sulla classe creativa del Lazio. Focus dei talks che animeranno l’OPIFICIO TELECOM ITALIA sarà invece una visione trasversale della creatività e dei suoi fautori, in collaborazione con le realtà che fanno dell’innovazione la loro prospettiva. Installazioni multimediali, ambienti sonori, videoarte, opere interattive, talk ed eventi scandiranno il tempo che ci guida da oggi al futuro.



Digital Life 2012 - Human Connections a Roma linguaggi della creatività digitale e sperimentazione tecnologica multimediale in mostra al MACRO, Opificio Telecom, Ex Gil 15 novembre / 15 dicembre 2012. Marina Abramović, Vito Acconci, Jan Fabre, Masbedo, Paola Gandolfi alcuni dei nomi degli ospiti in programma alla mostra. Installazioni multimediali, ambienti sonori, videoarte, opere interattive, talk ed eventi faranno immaginare futuri possibili.


giovedì 8 novembre 2012

Una croce a Santa Croce?


Premetto che l'installazione di Palladino a Piazza Santa Croce a Firenze non mi convince per nulla. Una montagna di marmo senza senso che vista a livello stradale appare inconciliabile con l'ambiente urbanistico fiorentino mentre vista in pianta non è che un'insensata e inutile rivisitazione e trasfigurazione del segno più sacro alla cristianità. E poichè oggi da una parte, da una certa tipologia di artisti, si abusa troppo del simbolo e dall'altra, dal punto di vista dei fruitori, non si è più capaci di leggerlo e di comprenderlo trovo ancor più pericoloso trattare la croce con la superficialità della visione contemporanea che, come dimostrato in molte situazioni, è univoca ovvero non apre orizzonti di senso ma è pervasa da un nichilismo di fondo che sostanzialmente illude e confonde lo spettatore. La perdita, in questa "croce", della dimensione escatologica e staurologica non può inoltre che allontanare l'installazione dalla pur paventata idea di arte sacra attuale.

Così leggiamo sul sito della Fondazione Florens


"Una gigantesca croce di 80×50 metri realizzata disponendo davanti alla basilica francescana più di 50 blocchi di marmo estratti dalle cave di Carrara, diversi per dimensioni (dai 2 ai 4 metri di altezza), peso (alcuni fino a 38 tonnellate), forma e colore. Su ogni blocco Paladino inciderà e tratteggerà segni arcaici, volti, arti, cifre e lettere: tutti elementi che contraddistinguono il suo linguaggio figurativo e attraverso cui Paladino affronta ed esplora i simboli e le iconografie cristiane da cui trarre ispirazione. La monumentale croce entrerà in dialogo con la facciata ottocentesca di Santa Croce e sarà percepibile nella sua interezza dal sagrato e dalle finestre dei palazzi, mentre l’invaso della piazza sarà coperto con un tappeto di ciottoli bianchi dell’estensione di circa 4.000 metri quadrati: un candido manto di marmo che rifletterà la luce del sole e quella artificiale notturna trasformando piazza Santa Croce in uno specchio di spiritualità e arte, un immenso foglio bianco su cui Paladino ha immaginato di disporre i blocchi in forma di croce.

Il progetto, a cura di Pino Brugellis e Sergio Risaliti, associa l’universalità del simbolo cristiano alla contemporaneità del patrimonio artistico, che in questa occasione viene re-interpretato offrendo una nuova esperienza della piazza e restituendola ad una sua originaria identità, quella di spazio pubblico, e, insieme, di spazio sacro: le pietre impressioneranno con la loro mole lo sguardo dei cittadini, attratti all’interno della croce come in un labirinto o in un sacro recinto dei primordi" (link)

Così invece risponde Tomaso Montanari dalle pagine del Corriere

"Non parliamo poi di Mimmo Paladino: centomila euro (di questi tempi!) spesi per una sorta di trasloco di marmi, con la brillantissima idea della croce in Santa Croce. Come si può pensare che un’opera calata dall’alto per qualche giorno, un’installazione che non ha nulla a che fare col vivo tessuto degli artisti attivi a Firenze possa ‘redimere’ la socialità malata di quel quartiere? Davvero qualcuno pensa che qualcosa cambierà? E cosa dire del consumismo che esibisce tonnellate di marmo, incurante delle polemiche sull’insostenibilità del crescente fabbisogno di quella pietra? O della coazione ad occuparsi sempre e solo delle quattro o cinque piazze consacrate dal turismo di massa? E sì che l’artista ha parlato proprio di arte e spazio pubblico in una delle ‘lectio’ (sì, nel programma si usa ‘lectio’ anche al plurale: il latino non è una macchina da soldi, dunque si può benissimo usarlo senza conoscerlo)"


Per tacere poi su tutta la simbologia alchemica e sapienziale insita nell'opera e che va esattamente nella direzione opposta della spiritualità cristiana

http://fidesetforma.blogspot.com/2012/11/la-croce-di-paladino-in-santa-croce-fra.html

sabato 3 novembre 2012

I 500 anni della volta Sistina nelle parole di Benedetto XVI



CELEBRAZIONE DEI VESPRI IN OCCASIONE DEL 500° ANNIVERSARIO DELL’INAUGURAZIONE DELLA CAPPELLA SISTINA, 31.10.2012

Alle ore 18 di questo pomeriggio, nella Cappella Sistina, il Santo Padre Benedetto XVI presiede la Celebrazione dei primi Vespri della solennità di tutti i Santi, in occasione del 500° anniversario dell’Inaugurazione della Cappella.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia nel corso della Celebrazione:

OMELIA DEL SANTO PADRE 

Venerati Fratelli, 
cari fratelli e sorelle! 

In questa liturgia dei Primi Vespri della solennità di tutti i Santi, noi commemoriamo l’atto con cui, 500 anni or sono, il Papa Giulio II inaugurò l’affresco della volta di questa Cappella Sistina. Ringrazio il Cardinale Bertello per le parole che mi ha rivolto e saluto cordialmente tutti i presenti. 
Perché ricordare tale evento storico-artistico in una celebrazione liturgica? Anzitutto perché la Sistina è, per sua natura, un’aula liturgica, è la Cappella magna del Palazzo Apostolico Vaticano.
Inoltre, perché le opere artistiche che la decorano, in particolare i cicli di affreschi, trovano nella liturgia, per così dire, il loro ambiente vitale, il contesto in cui esprimono al meglio tutta la loro bellezza, tutta la ricchezza e la pregnanza del loro significato. E’ come se, durante l’azione liturgica, tutta questa sinfonia di figure prendesse vita, in senso certamente spirituale, ma inseparabilmente anche estetico, perché la percezione della forma artistica è un atto tipicamente umano e, come tale, coinvolge i sensi e lo spirito. 
In poche parole: la Cappella Sistina, contemplata in preghiera, è ancora più bella, più autentica; si rivela in tutta la sua ricchezza. Qui tutto vive, tutto risuona a contatto con la Parola di Dio. 
Abbiamo ascoltato il passo della Lettera agli Ebrei: «Voi vi siete accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa…» (12,22-23). L’Autore si rivolge ai cristiani e spiega che per loro si sono realizzate le promesse dell’Antica Alleanza: una festa di comunione che ha per centro Dio, e Gesù, l’Agnello immolato e risorto (cfr vv. 23-24). Tutta questa dinamica di promessa e compimento noi l’abbiamo qui rappresentata negli affreschi delle pareti lunghe, opera dei grandi pittori umbri e toscani della seconda metà del Quattrocento. 
E quando il testo biblico prosegue dicendo che noi ci siamo accostati «all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione» (v. 23), il nostro sguardo si leva al Giudizio finale michelangiolesco, dove lo sfondo azzurro del cielo, richiamato nel manto della Vergine Maria, dona luce di speranza all’intera visione, assai drammatica. «Christe, redemptor omnium, / conserva tuos famulos, / beatæ semper Virginis / placatus sanctis precibus» - canta la prima strofa dell’Inno latino di questi Vespri. Ed è proprio ciò che noi vediamo: Cristo redentore al centro, coronato dai suoi Santi, e accanto a Lui Maria, in atto di supplice intercessione, quasi a voler mitigare il tremendo giudizio. 
Ma stasera la nostra attenzione va principalmente al grande affresco della volta, che Michelangelo, per incarico di Giulio II, realizzò in circa quattro anni, dal 1508 al 1512. Il grande artista, già celebre per capolavori di scultura, affrontò l’impresa di dipingere più di mille metri quadrati di intonaco, e possiamo immaginare che l’effetto prodotto su chi per la prima volta la vide compiuta dovette essere davvero impressionante. Da questo immenso affresco è precipitato sulla storia dell’arte italiana ed europea – dirà il Wölfflin nel 1899 con una bella e ormai celebre metafora – qualcosa di paragonabile a un «violento torrente montano portatore di felicità e al tempo stesso di devastazione»: nulla rimase più come prima. Giorgio Vasari, in un famoso passaggio delle Vite, scrive in modo molto efficace: «Questa opera è stata ed è veramente la lucerna dell’arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo». 
Lucerna, lume, illuminare: tre parole del Vasari che non saranno state lontane dal cuore di chi era presente alla Celebrazione dei Vespri di quel 31 ottobre 1512. Ma non si tratta solo di luce che viene dal sapiente uso del colore ricco di contrasti, o dal movimento che anima il capolavoro michelangiolesco, ma dall’idea che percorre la grande volta: è la luce di Dio quella che illumina questi affreschi e l’intera Cappella Papale. Quella luce che con la sua potenza vince il caos e l’oscurità per donare vita: nella creazione e nella redenzione. E la Cappella Sistina narra questa storia di luce, di liberazione, di salvezza, parla del rapporto di Dio con l’umanità. Con la geniale volta di Michelangelo, lo sguardo viene spinto a ripercorrere il messaggio dei Profeti, a cui si aggiungono le Sibille pagane in attesa di Cristo, fino al principio di tutto: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). Con un’intensità espressiva unica, il grande artista disegna il Dio Creatore, la sua azione, la sua potenza, per dire con evidenza che il mondo non è prodotto dell’oscurità, del caso, dell’assurdo, ma deriva da un’Intelligenza, da una Libertà, da un supremo atto di Amore. In quell’incontro tra il dito di Dio e quello dell’uomo, noi percepiamo il contatto tra il cielo e la terra; in Adamo Dio entra in una relazione nuova con la sua creazione, l’uomo è in diretto rapporto con Lui, è chiamato da Lui, è a immagine e somiglianza di Dio. 
Vent’anni dopo, nel Giudizio Universale, Michelangelo concluderà la grande parabola del cammino dell’umanità, spingendo lo sguardo al compimento di questa realtà del mondo e dell’uomo, all’incontro definitivo con il Cristo Giudice dei vivi e dei morti. 
Pregare stasera in questa Cappella Sistina, avvolti dalla storia del cammino di Dio con l’uomo, mirabilmente rappresentata negli affreschi che ci sovrastano e ci circondano, è un invito alla lode, un invito ad elevare al Dio creatore, redentore e giudice dei vivi e dei morti, con tutti i Santi del Cielo, le parole del cantico dell’Apocalisse: «Amen, alleluia. […] Lodate il nostro Dio, voi tutti suoi servi, voi che lo temete, piccoli e grandi! […] Alleluia. […] Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria» (19,4a.5.7a). Amen. 

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana (Fonte)


Inseriamo anche l'articolo di Antonio Paolucci, uscito sull'Osservatore Romano e il link dal sito vaticano per visitare virtualmente la Cappella Sistina

Il 31 ottobre 1512 Giulio si inaugurava la volta della Cappella Sistina completata da Michelangelo

di Antonio Paolucci

Ogni giorno almeno diecimila persone con punte di ventimila nei periodi di massima affluenza turistica, entrano in Cappella Sistina. È gente di ogni provenienza, lingua e cultura. Di ogni religione o di nessuna religione. La Cappella Sistina è l'attrazione fatale, l'oggetto del desiderio, l'obiettivo irrinunciabile per l'internazionale popolo dei musei, per i migranti del cosiddetto turismo culturale.
Tuttavia la Cappella Sistina, pur facendo parte del percorso dei Musei Vaticani, non è un museo. È uno spazio religioso, è una cappella consacrata. Di più, essa è il vero e proprio luogo identitario della Chiesa romano-cattolica. Perché qui si celebrano le grandi liturgie, qui i cardinali riuniti in conclave eleggono il pontefice. La Sistina è allo stesso tempo la sintesi in figura della teologia cattolica.
La storia del mondo (dalla Creazione all'Ultimo Giudizio) vi è qui rappresentata insieme al destino dell'uomo redento da Cristo. La Sistina è la storia della salvezza per tutti e per ognuno, è l'affermazione del primato del Papa di Roma, è il tempo sub gratia della Chiesa che assorbe, trasfigura e fa proprio il tempo sub lege dell'Antico Testamento. È l'arca della nuova e definitiva alleanza che Dio ha stabilito col popolo cristiano. Non a caso l'architetto Baccio Pontelli che operò fra il 1477 e il 1481 modificando e innalzando le preesistenti strutture volle dare alla Cappella Magna del Papa di Roma, le misure del perduto Tempio di Gerusalemme così come ci sono indicate dalla Bibbia.
Chi entra nella Cappella Sistina entra di fatto in una immane sciarada teologico-scritturale che è arduo comprendere al primo sguardo. Ci sono immagini (la Creazione dell'uomo, il Peccato originale) che nella memoria di chi guarda (sempre che chi guarda provenga da Paesi di cultura cattolica) riaffiorano in disarticolati frammenti dal catechismo dell'infanzia. Ce ne sono altre (i Profeti, le Sibille, certi episodi dell'Antico Testamento) che il visitatore comune non conosce affatto. Chi, anche fra i visitatori credenti e praticanti, sa qualcosa della Punizione di Aman o dell'Innalzamento del serpente di bronzo o saprebbe spiegare, con un minimo di correttezza, chi erano la Sibilla Cumana o il profeta Giona?
E poi c'è Michelangelo il quale, come una luce troppo forte che acceca tutto ciò che sta intorno, assorbe con la sua notorietà clamorosa l'attenzione di ognuno rendendo difficile l'ordinata comprensione del sistema simbolico all'interno del quale Michelangelo è inserito.
Ci sono vari modi per entrare nel sistema Sistina, tutti necessari. C'è prima di tutto quello della comprensione iconografica, della decodificazione simbolica. Occorre guardare e riguardare a lungo e poi tornare a guardare le scene affrescate cercando di collocarle nel tempo, nella storia, nella dottrina che ha dato loro immagine e significato.
C'è poi la comprensione del messaggio stilistico, operazione ardua per chi non è provvisto di una attrezzatura storico critica adeguata.
Quel 31 Ottobre del 1512 quando Giulio ii inaugurava con la liturgia dei vespri la volta da Michelangelo conclusa dopo una immane fatica durata quattro anni (1508-1512), il Papa non poteva immaginare che da quei più di mille metri affrescati sarebbe precipitato sulla storia dell'arte un violento torrente montano portatore di felicità ma anche di devastazione, come scrisse il Woelfflin nel 1899 con una bella metafora.
Di fatto, dopo la volta, la storia dell'arte in Italia e in Europa cambia radicalmente. Niente sarà più come prima. Con la volta ha inizio quella stagione delle arti che i manuali chiamano “del manierismo”. La volta -- scrive Giorgio Vasari -- diventerà la lucerna destinata a illuminare la storia degli stili per molte prossime generazioni di artisti.
Per capire la radicalità della rivoluzione operata da Michelangelo, bisogna confrontare la volta con gli affreschi che trent'anni prima lo zio di Giulio ii, Papa Sisto iv della Rovere aveva fatto affrescare dai massimi pittori dell'epoca: da Ghirlandaio, da Perugino, da Botticelli, da Luca Signorelli. Il visitatore che guarda prima gli affreschi della volta poi quelli delle pareti, avrà l'impressione che fra gli uni e gli altri ci siano non trenta ma trecento anni di distanza. Basterà questo confronto a far intendere anche al visitatore della prima volta e di una sola ora la profondità e le dimensioni di una mutazione, quella messa in opera dal Buonarroti, che è filosofica, spirituale, religiosa prima di essere stilistica.
C'è poi (al sapere dell'iconografo e alle competenze dello storico dell'arte si sovrappone e si mescola la sensibilità del conservatore) un tipo di approccio alla Sistina che riguarda l'uso che ai nostri giorni pesa su questo documento supremo della umana civilizzazione. È l'approccio che conosco bene perché tocca direttamente le mie responsabilità di direttore dei Musei Vaticani.
Cinque milioni di visitatori all'anno all'interno della Cappella Sistina, ventimila al giorno nei periodi di punta, fanno un ben arduo problema. La pressione antropica con le polveri indotte, con l'umidità che i corpi portano con sé, con l'anidride carbonica prodotta dalla traspirazione, comporta disagio per i visitatori e, nel lungo periodo, possibili danni per le pitture.
Potremmo contingentare l'accesso, introdurre il numero chiuso. Lo faremo se la pressione turistica dovesse aumentare oltre i limiti di una ragionevole tollerabilità e se non riuscissimo a contrastare con adeguata efficacia il problema. Io ritengo però che nel breve medio periodo l'adozione del numero chiuso non sarà necessaria. Intanto (è l'obiettivo che sta impegnando in questi mesi le nostre energie) è necessario mettere in opera tutte le più avanzate provvidenze tecnologiche in grado di garantire l'abbattimento delle polveri e degli inquinanti, il veloce ed efficace ricambio dell'aria, il controllo della temperatura e dell'umidità. Se ne sta occupando, con un progetto di altissima tecnologia, radicalmente innovativa, la multinazionale Carrier, azienda leader nel mondo nel settore della climatizzazione. Io confido che, entro un anno, il nuovo impianto potrà entrare in funzione.
Diceva Giovanni Urbani, grande maestro dei nostri studi, che alla nostra epoca non è dato avere un nuovo Michelangelo. A noi è dato però il dominio della tecnica la quale ci permetterà, se correttamente applicata, di conservare il Michelangelo che la storia ci ha consegnato nelle condizioni migliori, per il tempo più lungo possibile.

(©L'Osservatore Romano 31 ottobre 2012)



giovedì 1 novembre 2012

Addio all'architetto Gae Aulenti

L'architetto Gae Aulenti è morta nella sua casa di Milano, nel quartiere Brera. Aveva 85 anni. Fra le sue opere più famose il progetto della Gare d'Orsey e del Museo, a Parigi, realizzato negli anni '80Aulenti, malata da tempo, aveva fatto l'ultima uscita pubblica lo scorso 16 ottobre, quando aveva ritirato il premio alla carriera conferitole dalla Triennale. Nata in provincia di Udine, da una famiglia di origini pugliesi, è considerata una dei maestri del nostro tempo in campo architettonico. Aulenti si è formata nella Milano degli anni Cinquanta, dove l'architettura italiana è impegnata nel recupero dei valori del passato e dell'ambiente costruito esistente. In quegli anni nasce la nuova corrente del Neoliberty. La Aulenti fa parte di questo percorso, che si pone come reazione al razionalismo. Proprio a questo percorso si può ricondurre il tema floreale del Museo di Orsay o la lampada a 'Pipistrello' che asi ispira all'Art Nouveau. Negli anni '80 la Aulenti partecipa anche all'allestimento del Museo Nazionale d'Arte Moderna del Centre Georges Pompidou di Parigi e alla ristrutturazione di Palazzo Grassi, a Venezia. Dal 1955 al 1965 fa parte della redazione di "Casabella-Continuità" sotto la direzione di Ernesto Nathan Rogers. Dal 1974 al 1979 è membro del Comitato direttivo della rivista "Lotus International" e dal 1976 al 1978 collabora con Luca Ronconi a Prato al Laboratorio di Progettazione Teatrale.

Di sicuro Aulenti è ricordata per la riprogettazione della Gare d'Orsay (ma anche le scuderie del Quirinale sono un intervento notevole) che trasforma nel museo degli impressionisti con soluzioni museografiche all'avanguardia, oltre che di grande effetto scenografico. "Bisogna progettare per un senso collettivo, non per blasfemia individuale". dirà lucidamente in quest'intervista esclusiva a Immobiliare.

In basso la stazione d'Orasy prima e dopo l'intervento







Il san Giovanni Battista di Tiziano al Prado

Lunedì prossimo sarà presentato al Prado il San Giovanni Battista attribuito a Tiziano e appena restaurato. Da sempre ritenuta copia in realtà si è rivelato un inedito in cattivo stato conservativo ed ora, ripulito, è esposto al pubblico. Così qualche mese fa:


"Tre mesi dopo la scoperta della "gemella" della Gioconda, il museo del Prado ha portato alla luce un nuovo Tiziano, una versione simile al 'San Giovanni Battista' conservato nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia, datato intorno al 1542, e che era stata fino a oggi considerata una copia. Ne danno notizia fonti della pinacoteca madrileña citate oggi da El Pais.

L'opera, in cattivo stato di conservazione, e' in corso di restauro da parte della sezione scientifica del Prado, costituita da una quindicina di conservatori e una ventina di restauratori che, grazie a radiografie, riflessografie a infrarossi e analisi dei pigmenti, sono riusciti a far luce sul metodo di lavoro di Tiziano e le varie tappe della sua creazione artistica. Una terza vesione del San Giovanni Battista realizzata dal genio italiano della pittura si conserva nelle sale capitolari del Monastero di San Lorenzo dell'Escorial, al quale fu donata da Felipe II nel 1577. La tela attribuita al pittore veneziano - custodita in una chiesa dell'Almeria, al sud della Spagna e, inventariata nel Bollettino del museo madrileno - rientra nel patrimonio del cosiddetto Prado disperso, un insieme di 3.100 opere cedute in prestito a enti e istituzioni in varie parti della Spagna nel 1872, quando la collezione della pinacoteca aumento' sensibilmente con l'annessione dei fondi del Museo de la Trinidad.

L'artefice della scoperta e' stato Miguel Falomir, capo del dipartimento di pittura italiana e francese del Prado, che sta realizzando un catalogo ragionato su Tiziano che si prevede sia pubblicato per la fine dell'anno. Falomir è stato fra l'altro il curatore di un'esposizione dedicata dal Prado a Tiziano nel 2002. ''Nessuno sapeva della sua esistenza'', ha riconosciuto il direttore delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, Matteo Ceriana, in dichiarazioni al quotidiano. Ceriana, che ha potuto vedere la versione - di cui non sono state diffuse immagini, perchè in fase di restauro - non ha dubbi che si tratti di un originale. "Non è esattamente come la nostra e nemmeno come quella dell'Escorial, di modo che le tre versioni sono interconnesse", ha spiegato. ''San Giovanni Battista non è un tema molto complesso e un artista come Tiziano, tanto grande e vissuto tanto tempo, dovette affrontare varie volte gli stessi temi. Tentava di non ripetersi e di reinventarsi", ha aggiunto. I dettagli del ritrovamento saranno diffusi dal Prado in autunno quando sarà presentato il restauro con gli studi sull'attribuzione in un'esposizione, accompagnata da un catalogo ragionato sul genio italiano della pittura". (Fonte Ansa)

venerdì 19 ottobre 2012

Lost Art

La storia dell'arte purtroppo è fatta anche dalle storie delle tante distruzioni avvenute nel corso dei secoli. A riguardo due segnalazioni. La prima è Gallery of Lost Art. Si tratta di una mostra online che racconta le storie di opere d'arte scomparse, distrutte, rubate, rifiutate, o cancellate e che non possono più essere viste. "The Gallery of Lost Art" è un sito web visivamente strutturato come un magazzino open con vista dall'alto, con vere e proprie scritte in gesso che delimitano le zona dove si trovano le opere d’arte, facendolo somigliare ad una vera e propria scena del crimine. La seconda è il sito Necrologi dell'Arte che racconta le storie di opere distrutte, disperse, degradate. Tra queste quelle che riguardano il celebre e disastroso Incendio della Flakturm Friedrichshain  che è stato il più grande disastro artistico della storia moderna, dopo la distruzione del Palazzo dell'Alcazar di Madrid, avvenuta nel 1734.


mercoledì 17 ottobre 2012

Sleep Art

Il medioevo: un nano sulle spalle di un gigante?


Ciro Lomonte
Il medioevo: un nano sulle spalle di un gigante?
Com’è stato possibile indire la “crociata delle cattedrali”.


Bernardo di Chartres[1] esortava gli allievi ad imitare gli antichi: “noi siamo come nani seduti sulle spalle dei giganti affinché possiamo vedere più cose di loro e più in lontananza”. C’è anche una vetrata della cattedrale di Chartres dedicata a questo detto di Bernardo.

I cristiani si consideravano nani sulle spalle dei giganti – degli antichi – perché potevano vedere più di loro: “…non certo per l’acutezza della nostra vista o la grandezza dei nostri cuori che possiamo vedere più di loro, ma poiché siamo sollevati e portati in alto dalla grandezza dei giganti”. Se potevano lanciarsi in avventure impensabili era grazie alla grandezza di persone come Platone ed altri che li avevano preceduti, che avevano preparato il terreno per le loro conquiste.

Giovanni di Salisbury aggiunge che Bernardo ed altri suoi allievi si davano pena di conciliare l’aristotelismo ed il platonismo. Una delle cose strane della cattedrale di Chartres, dove è vissuto l’impulso platonico in maniera somma, è l’assenza di Platone. Eppure troviamo rappresentato due volte Aristotele. Viene da chiedersi come mai questi chartriani così amanti di Platone preferiscano raffigurare Aristotele.

* * *

Fermiamoci adesso al XII secolo, perché fornisce le premesse indispensabili al tema del nostro incontro. Figura interessante ai nostri fini è l’abbé Suger[2], uomo di Chiesa e di governo, dato il ruolo che questo monastero ha svolto nella storia della monarchia francese.

In tale condizione, Suger riuscì a combinare il servizio di Dio con la fedeltà al re Luigi VII in forza di grandi capacità diplomatiche e amministrative e di una singolare tenacia. In questa prima metà del secolo XII, così ricca di fermenti di ogni genere, Suger è l’anti-Bernardo[3], almeno nella vita attiva. Dalla più influente personalità religiosa del tempo lo distingueva quasi tutto, compreso un certo disinteresse per problemi di dottrina o di regola. Su questo fra Suger e Bernardo ci fu una polemica, ma è significativo che l’altro e ben più famoso avversario di Bernardo, Abelardo, che ebbe l’ardire un po’ altezzoso di smontare il mito di san Dionigi l’Areopagita proprio quando era ospite all’abbazia, non venga preso in considerazione da Suger che per sistemare la faccenda piuttosto imbarazzante della sua appartenenza alla congregazione di Saint-Denis.

Ma ad opporre Suger a Bernardo e ai cistercensi è soprattutto l’aspirazione alla bellezza e al fasto dei luoghi sacri, l’uso dell’arte e dell’architettura in servizio della gloria di Dio. È questa la vera passione di Suger, passione tanto più forte in quanto fondata sull’opera di quel Dionigi al quale era intitolata l’abbazia.

Dionigi (pseudo-Dionigi per noi, forse un anonimo siriano che scrive fra IV e V secolo) inserisce nella sua teologia una metafisica della luce, che combina elementi neoplatonici e cristiani. La luce discenderebbe dall’Uno alla materia terrestre, che, pur oscurata, ne conserva qualche parte; la luce presente nel mondo è così guida e ascesa al divino come le materie che la possiedono: l’oro, le gemme, le vetrate. La luce è poi anche luce architettonica, ampiezza e altezza della costruzione: in questo modo il nuovo coro di Saint-Denis inaugura l’arte gotica dell’Ile-de-France.

Suger restò sempre profondamente convinto dell’utilità dell’impresa e del suo valore religioso e celebrativo. Forse intuì anche la modernità di certe soluzioni artistiche e architettoniche: lo dimostra il libello che egli ha lasciato sull’opera di ricostruzione di Saint-Denis. Che poi a questo si accompagnasse anche un’autocelebrazione, un rinascimentale desiderio di perpetuazione, è ipotesi improbabile quanto suggestiva.

* * *

Il medioevo non sembra davvero un millennio di nani. Pensiamo ad alcuni giganti del XIII secolo: Federico II (1194-1250); S. Luigi IX (1214-1270), che proprio a Saint Denis si occupa della sistemazione delle tombe reali per garantire continuità ideale da merovingi a capetingi; S. Tommaso d’Aquino (1225-1274); S. Bonaventura da Bagnoregio (Giovanni Fidanza, 1217-1274); …

* * *

I romani, grandi pragmatici con un notevole complesso di inferiorità nei confronti della cultura e dell’arte greche, sviluppano l’architettura senza rendersi conto della portata delle proprie conquiste. Saranno i bizantini a farne un uso consapevole (è la cultura classica che dà finalmente frutti maturi, vivificata dalla Rivelazione e dalla venuta del Messia). Gli arabi impiegheranno a piene mani le sofisticherie dell’architettura bizantina.

* * *

L’architettura gotica si scatena. Le caratteristiche delle cattedrali rispecchiano una differente concezione della vita e del mondo. Lo sviluppo dell’edificio è in verticale, con la facciata serrata fra due alte torri. Tutta la struttura s’innalza grazie all’uso d’archi acuti o ad ogive, che permettono altezze mai raggiunte prima, sgravando il peso delle volte a crociera dalle mura laterali, destinate a divenir sovente immense vetrate colorate. Le linee di congiunzione degli archi formano un naturale punto di fuga che vola verso l’alto, l’abside si allontana e la magnificenza del luogo si fa sempre più grande.

Il linguaggio gotico, oggi rivalutato al punto da essere considerato tra i più prolifici e innovatori, ha anche una caratteristica del tutto nuova. Nonostante le differenze locali, più o meno marcate, i tratti nazionali e più spesso regionali, esistono alcune peculiarità distintive del genere, che unificano, per la prima volta dai tempi dell’antica Roma, le espressioni artistiche di tutta Europa.

Storicamente, l’arte gotica s’inserisce in un momento di forte cambiamento. Laddove l’impero entra in crisi, ad esso iniziano a sostituirsi le monarchie, che organizzano il potere politico e si appoggiano saldamente al nuovo ceto, contrapposto alla vecchia nobiltà feudale: la borghesia. Coesistono nel nuovo assetto sociale borghesi, ma anche antichi signori e soprattutto religiosi, che formano vere e proprie comunità e svolgono un ruolo decisivo nell’ambito della cultura in genere, dell’arte e dell’istruzione in particolare.

La cattedrale gotica è stata paragonata alle Summae medievali. Pensiamo all’universo rappresentatovi dagli artisti con pertinenza antropologica e teologica. In realtà il corrispettivo della Summa theologiae di S. Tommaso d’Aquino e della Divina Commedia di Dante Alighieri è la Sagrada Familia di Antoni Gaudí, iniziata nella seconda metà del XIX secolo e ancora in costruzione. Le cattedrali di quest’epoca sono opera corale di un’intera società, una vera crociata incruenta, a volte durata centinaia di anni. Impresa resa possibile dalle corporazioni di artisti e artigiani che avevano i loro spazi riservati (logge) nel cantiere.

* * *

Lo sviluppo della tecnologia dell’arco a sesto acuto è legato alla nascita della scienza (non di quella sperimentale, galileiana). La riflessione sul Logos, nei termini in cui parla del Figlio di Dio il prologo del Vangelo di Giovanni, consente di comprendere che l’universo non è caos, come lo vedeva il pensiero classico, bensì è razionale e conoscibile. Con questo non intendiamo sminuire le sorprendenti conoscenze empiriche dell’antichità. Tuttora infatti non sappiamo come funziona la cupola del Pantheon. Della cultura architettonica del passato ci rimane soltanto il trattato di Vitruvio, i Dieci libri dell’architettura. Probabilmente l’incendio della biblioteca di Alessandria ha causato una perdita irreparabile.

* * *

L’arte bizantina e quella romanica (specie quest’ultima, meno ieratica) testimoniano la grande unità di un’intera cultura. Ogni cosa stava al suo posto, in armonioso ordine gerarchico. Non è un caso che gli artisti prestassero maggiore attenzione prima alle cattedrali, poi alle sedi delle istituzioni e infine alle costruzioni domestiche. Inoltre tutte le arti erano unite, non frammentate. Tutto sommato gli esercizi piuttosto cerebrali della logica tardoscolastica hanno rotto questo equilibrio. È la tentazione luciferina della gnosi, sempre insidiosamente presente nel pensiero cristiano.

* * *

Del gotico è impressionante la libertà artistica: l’universo rappresentato in pittura e scultura, architettura dis-ordinata, rapporto con l’intero cosmo. Questo dà molto fastidio al rinascimento e all’illuminismo.

È Giorgio Vasari ad utilizzare per primo il termine “gotico”, a definire quella che egli considera una barbara manifestazione artistica. L’arte gotica è barbara, appunto, come fosse realizzata dai Goti, perché non corrisponde al canone classico cui il rinascimento intende tornare.

Perduta con gli anni ogni accezione negativa, la definizione rimane ad indicare un’epoca artistica, con caratteri e stilemi comuni. Ma forse rimane molto da fare per comprendere che i veri nani sono gli illuministi che hanno cercato di ridurre la complessità del reale dentro le classificazioni dell’enciclopedia, in particolare il concetto stesso di stile. In fondo un nano può sempre rifugiarsi nell’ironia di fronte alla grandezza dei giganti.


[1] Questo monaco, che morì intorno al 1130, non va confuso con il contemporaneo San Bernardo, di cui si parla di seguito. Qui è citato da Giovanni di Salisbury.
[2] Suger fu abate dal 1122 al 1151 dell’antica abbazia parigina di Saint-Denis.
[3] La sua è un’audacia che può farsi temeraria contro una possanza (quella di San Bernardo e dei cistercensi) che può degenerare in sicumera.

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