venerdì 30 dicembre 2011

Questione di post


Faccio un po' di "metablog" ovvero seguo per una volta una delle tante catene che girano su internet per riproporre all'attenzione dei lettori alcuni post interessanti e ai quali sono legato. Un buon modo per chiudere l'anno riscoprendo articoli passati.

IL POST IL CUI SUCCESSO MI HA STUPITO

Forse il post in cui segnalavo la mostra di Moebius a Parigi. Non è che Jean Giraud non sia un fumettista famoso ma ho notato che le immagini sono state molto ricercate. Stupende (e le segnalo di nuovo) quelle di "Venezia Celeste".

IL POST PIU' POPOLARE

Sicuramente quello sulla statua di Uta di Naumburg messa in relazione con la strega di Biancaneve. Recentemente se ne è parlato a radiotre e i contatti sono stati altissimi. Interessante storia sulle infinite migrazioni dell'immagine. 

IL POST PIU' CONTROVERSO

Controverso non tanto per i commenti arrivati quanto per il contenuto: Arte della censura e l'iconografia della Nuda Veritas nell'epoca berlusconiana. 

IL POST PIU' UTILE

Beh, dovrebbe essere la base di partenza per ogni studioso di storia dell'arte. Le norme redazionali tratte dal periodico Storia dell'arte.

IL POST CHE NON HA RICEVUTO L'ATTENZIONE CHE MERITAVA

Un post con una traduzione, arricchita da mie personali considerazioni, di un articolo uscito sul Telegraph: Cos'è la Bellezza? Le 10 qualità che rendono l'arte bella.

IL POST PIU' BELLO


IL POST DI CUI VADO PIU' FIERO

Difficile da dire. Ce ne sono tanti. Forse i post in cui segnalo una rubrica interessantissima per comprendere le dinamiche dell'arte contemporanea. Rubrica tenuta dal prof. Rodolfo Papa su Zenit: Riflessioni sull'arte. E poi non c'è un post ma un nuovo blog che ho aperto quest'anno e che si occupa dell'arte nella mia regione: Arte in Molise.

E con questo abbiamo finito. Seguendo le regole dovrei invitare altri sette bloggers ma passo la palla a… chiunque voglia continuare il gioco. Al nuovo anno!

mercoledì 28 dicembre 2011

Cretti e memorie

Il Grande Cretto di Gibellina è una grande opera d'arte ambientale realizzata daAlberto Burri. È situato sull'area dove un tempo sorgeva l'abitato di Gibellina. Un violento terremoto colpisce la valle del Belice nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, distruggendo completamente Gibellina. Di fronte all'impossibilità di ricostruire l'abitato sulle rovine, l'amministrazione cittadina decide di lasciare sul luogo una testimonianza della tragedia a perenne ricordo delle vittime e delle grandi sofferenze sopportate. L'incarico viene affidato ad Alberto Burri, che concepisce una versione amplificata dei suoi famosi Cretti. La titanica impresa inizia nel 1985 e viene interrotta nel 1989. Il Grande Cretto di Gibellina si presenta come un'enorme coltre di cemento bianco che si dispiega sul fianco scosceso della montagna. Il suo aspetto ricorda un'immensa superficie ondulata, spaccata da profonde crepe e fenditure. L'effetto è dovuto alla sua particolare struttura a grandi blocchi di cemento, grosso modo quadrangolari, separati tra loro da profondi solchi. Il tracciato dei blocchi e delle fenditure ricalca sostanzialmente l'antico impianto viario, con i suoi isolati e le sue stradette. L'intenzione di Burri è stata, cioè, di restituire un'idea dell'antico abitato. Le macerie "cementificate" sono custodite dall'opera che conserva l'urbanistica del paese; la memoria diventa non retorica ma percorribile, seppur resa anonima e uguale dai blocchi. L'idea della frattura e del distacco, metafora se vogliamo del terremoto che disgrega, diventa cifra stilistica per un'installazione potente ed evocativa, di grande impatto emozionale. L'impressione è amplificata dal singolare contrasto con l'ambiente circostante, aspro, ma a tratti coltivato. Su un lato, il Grande Cretto evoca l'idea della terra che trema e uccide. Sull'altro, il tracciato ordinato dei vigneti sulle colline antistanti evoca l'idea della terra faticosa ma pacifica, che risponde alla mano dell'uomo dando frutti.





Singolare il confronto col Memoriale all’Olocausto di Berlino progettato da Peter Eisenman, e inaugurato pochi anni fa. Il progetto si presenta come un percorso labirintico lungo il quale una vasta griglia di colonne di cemento crea un’atmosfera di astrazione che diventa metafora dell’oscuro e complesso percorso interiore che l’uomo vive al ricordo del genocidio degli ebrei ad opera del nazismo. Il monumento sorge emblematicamente presso la porta di Brandeburgo, vicino la sede amministrativa della macchina da guerra di Hitler ed in prossimità del suo famoso bunker. Eisenman ha voluto rendere percettibile quel senso di estraniazione mosso dal ricordo di una inimmaginabile strage, attraverso un progetto che diventa apoteosi di una totale perdita di senso: un percorso labirintico ed irregolare di ciottoli guida i visitatori tra 2.711 pilastri di calcestruzzo disposti a scacchiera che sembrano affondare ambiguamente in un terreno che segue un movimento ondulatorio, senza lasciare alcuna speranza di risalita. La vasta griglia del memoriale rappresenta l’estensione delle vie adiacenti al sito, ma è anche evocazione inquietante della rigida disciplina inculcata dal regime del Führer. Le colonne evocano, invece, le lapidi funerarie degli ebrei che hanno perso la vita nel massacro. L’idea alla base del progetto sembrerebbe quella di dare forma ad un processo che consenta all’uomo di accettare il male come un aspetto della vita normale. Ed è per questo che nel nuovo memoriale di Berlino la linea che separa vita e morte, colpevolezza ed innocenza si rivela quasi impercettibile. Man mano che si procede lungo il percorso, il terreno sul quale sorgono le colonne acquista sempre maggiore pendenza: all’inizio del percorso si riesce ad intravedere la città, mentre le fila dei pilastri fanno da cornice al Reichstag. Gradatamente la vista comincia a scomparire, e lo scricchiolio della ghiaia calpestata diventa sempre più rumoroso, finchè il movimento instabile delle colonne inclinate diventa minaccioso ed opprimente. L’effetto di disorientamento è voluto: il visitatore si ritrova solo faccia a faccia col ricordo dell’olocausto. Una volta fuori dal percorso, ritornato nella dimensione reale, tutte le sensazioni appena vissute acquistano maggiore chiarezza. In tal modo l’architetto intende far rivivere momenti agghiaccianti senza alcun tipo di sentimentalismo: “Non voglio che i visitatori si commuovano per poi andar via con la coscienza pulita”.




venerdì 23 dicembre 2011

Auguri

Un augurio a tutti i lettori per un Santo Natale con un'immagine celeberrima del ciclo di Giotto ad Assisi: il Presepe di Greccio, ed un regalo visto che ho attivato la versione mobile del blog.


martedì 20 dicembre 2011

Transfunzionalità


Termine nuovo per un concetto ormai acclarato per l'arte contemporanea degli ultimi 30 anni. E' il caso del nuovo libro di Marco Tonelli THE ART HORROR PICTURE SHOW Dalla Transavanguardia alla Transfunzionalità. La nascita dell’Arte contemporanea come provocazione, i suoi illustri critici e difensori, la Transavanguardia italiana, il MAXXI di Roma, i Supercollezionisti internazionali, i curatori alla moda, gli artisti oltre i limiti dell’arte. Un libro sfrontato, discorsivo, argomentato e polemico sull’Arte contemporanea, valutata per la prima volta secondo una nuova chiave interpretativa e di estrema attualità: la Transfunzionalità.
Un libro che è una cruda radiografia di un fenomeno, quello appunto dell’Arte contemporanea, che non sa più distinguersi dal mondo dei media, della cronaca e della pubblicità e che è oramai costretto a confessare la verità sulle sue reali funzioni nella società contemporanea. Ma cosa ha voluto intendere l’autore con il concetto di Transfunzionalità nell’arte? "Un oggetto comune diventato opera d’arte semplicemente per essere stato spostato dal suo contesto originario e che va quindi analizzato e motivato secondo il sistema dell’arte".


domenica 18 dicembre 2011

Le stelle di Van Gogh tra arte e astronomia e tutti i notturni: i colori della notte

Mi ero sempre chiesto quale fosse la cultura figurativa che avesse ispirato quel sorprendente quadro che è la "Notte stellata di Van Gogh", forse il suo unico lavoro pienamente simbolista. Questo interessante articolo lo spiega analizzando altri notturni di Vincent. Alla fine voglio aggiungere altre mie proposte e la quasi completa serie di notturni di Van Gogh, i quadri secondo me più poetici e suggestivi dove il colore si scontra con l'oscurità ed esce fuori da un completo ricorso ad un'immaginazione cromatica antinaturalistica ed emozionale.

«...guardare le stelle mi fa sempre sognare, così come lo fanno i puntini neri che rappresentano le città e i villaggi su una cartina. Perché, mi chiedo, i puntini luminosi del cielo non possono essere accessibili come quelli sulla cartina della Francia?».

Queste parole, scritte da Vincent in una delle famose lettere al fratello Theo, sono un'ulteriore conferma del fascino che quei "puntini luminosi" esercitavano sul pittore, ma basta guardare le sue opere per capirlo. Molti dei suoi quadri sono costellati di "puntini luminosi" sospesi nel blu e nel nero della notte che all'occhio inesperto e intento a soffermarsi sui dettagli possono anche sembrare messi lì a caso dalla fantasia dell'artista, ma non a quello di un esperto più avvezzo a guardare l'insieme. I "puntini luminosi" che Van Gogh vorrebbe ancor "più accessibili" sono stati infatti oggetto di un attento studio da parte sua che oggi a distanza di decenni suscita l'interesse degli scienziati.

Prendiamo ad esempio la Notte stellata sul Rodano, uno dei suoi quadri più celebri. Quando iniziò a lavorarci nel 1888, cioè prima di incontrare Paul Gauguin, Van Gogh si trovava già nella città di Arles, dove tra le sponde del fiume Rodano scoprì un punto adatto per rappresentare un soggetto che lo rende particolarmente felice. «Sto lavorando [...] a uno studio del Rodano, della città illuminata dai lampioni a gas riflessi nel fiume blu. In alto il cielo stellato con il Gran Carro, un luccichio di rosa e verde sul campo blu cobalto del cielo stellato, laddove le luci della città e i suoi crudeli riflessi sono oro rosso e verde bronzeo...», scrive infatti il pittore. Dettagli come questi attirano sempre l'attenzione di critici e curiosi che amano mettersi alla caccia del luogo e dell'esatto punto di osservazione da cui un artista realizzò un suo dipinto. Nel mondo dell'arte uno dei dibattiti più accesi in questo senso riguarda, ad esempio, il luogo in cui posò Monna Lisa quando Leonardo la ritrasse nel celebre dipinto. Tuttavia, nel caso dei cieli stellati di Van Gogh a interessare, oltre alle coordinate spaziali, sono anche quelle temporali. 


Per quanto riguarda in particolare La notte stellata sul Rodano, l'astronomo italiano Gianluca Masi è riuscito a stimare l'esecuzione del quadro in una notte compresa tra il 20 e il 30 settembre 1888 alle ore 22;30 grazie a uno studio accurato della posizione dei "puntini luminosi" dipinti da Van Gogh e nonostante un piccolo errore: la costellazione dell'Orsa Maggiore, rappresentata sopra le luci della città, appare infatti deformata, cosa che fa supporre una pausa di almeno quaranta minuti nell'esecuzione dell'opera, essendo il cielo notturno mutato col trascorrere del tempo. Forse il pittore si è dedicato ad altro, per poi riprendere il lavoro e fissare "erroneamente" le rimanenti stelle in una posizione diversa, fatto sta che questo particolare rende difficile ricostruire l'orario e la data esatte dell'esecuzione dell'opera. A questo si aggiunga poi anche la scoperta sempre da parte di Masi di una sorta di licenza artistica che Van Gogh si è preso raffigurando la costellazione in un punto diverso da quello reale, cioè in direzione sud-ovest piuttosto che a nord.

Studi simili sono stati fatti anche su Notte stellata, dipinto da Van Gogh l'anno successivo mentre si trova ricoverato presso la clinica psichiatrica di Saint-Rémy-de-Provence, sempre nel sud della Francia. Qui, il cielo che sovrasta Saint-Rémy e le Alpilles sullo sfondo, è rappresentato con vorticosi movimenti di colore un omaggio, forse, alla galassia Vortice M51 disegnata da Lord Rosse nel 1845 col telescopio più grande dell'epoca. Lord Rosse eseguì pionieristici studi astronomici e riuscì a risolvere in stelle alcune "nebulose a spirale", di cui all'epoca non si conosceva la natura e oggi sappiamo trattarsi di galassie a spirale. La prima galassia risolta in stelle fu M51, ed i suoi disegni della galassia assomigliano molto alle fotografie moderne (oggi M51 è nota come Galassia vortice). Riguardo ad esso Van Gogh scrive: «...come se il cielo, passando attraverso i suoi gialli e i suoi azzurri, diventasse un irradiarsi di luci in moto per incutere un timor panico agli umani che sentono il mistero della natura.» E tra i gialli e gli azzurri del firmamento s'identifica facilmente la luna all'ultimo quarto, una stella bianca vicino l'albero in primo piano (Venere) e la costellazione dei pesci. Grazie ad un software astronomico è stata identificata la data di esecuzione dell'opera nelle ore che precedono l'alba del 23 maggio 1889, difatti se si confronta la disposizione dei corpi celesti, la fase e l'altezza della luna ci si accorge che il cielo è il medesimo.


Lord Rosse - disegno della Galassia a Spirale




Sopra una galassia dall'opera Astronomia per amatori di Camille Flammarion, altra fonte di ispirazione. Per la Notte stellata propongo comunque altre ipotetiche influenze, tra queste di certo la grafica giapponese e forse l'arte megalitica.

Hiroshige - gorgo
Blocchi megalitici di Newgrange

Con lo stesso principio lo staff texano di Donald Olson alcuni anni fa ha studiato invece un altro quadro di Van Gogh, Luna che sorge (qui il suo articolo). In esso la campagna di Saint-Rémy appare in primo piano, e nello sfondo la luna piena che sorge sulle Alpilles. La posizione della luna ha fatto ipotizzare due possibili date di esecuzione: il 16 maggio e il 13 luglio. Tuttavia, secondo Olson dai covoni di grano rappresentati nel quadro, la seconda data è quella più certa: l'opera infatti è stata rappresentata alle ore 21;08 del 13 luglio 1889.


In Strada con cipressi e cielo stellato Van Gogh ha dipinto un allineamento di pianeti identificato nel 1988 da sempre da Donald Olson. Nel cielo si staglia un cipresso e per sfondo appaiono due puntini luminosi in compagnia della Luna. Egli è riuscito a identificare i pianeti Mercurio e Venere ben visibili al tramonto in quel periodo; ciò che il pittore ha rappresentato, quindi, è una congiunzione di pianeti avvenuta il 20 aprile 1890 tra le 19 e le 20 di sera.


La composizione fu una delle ultime eseguite a Saint Remy, poiché un mese dopo egli si sarebbe trasferito aAuvers-sur-Oise a trenta chilometri da Parigi. Qui dipinse una casa Bianca che ha destato ancora una volta l’attenzione dello staff di Olson. Su quest’opera Van Gogh scrive: «…una casa bianca nella vegetazione con una stella nel cielo notturno e una luce arancione sulle finestre [...] e una nota di tetro rosa.» Questo dipinto infatti si chiama Casa bianca di notte, ove domina in alto la luce di Venere che ha permesso a Olson di datare l’opera il 16 giugno 1890 ore 20, ossia sei settimane prima del suicidio dell'artista olandese. 


Queste scoperte avvenute un secolo dopo la sua morte hanno indubbiamente svelato l'istante temporale di alcune opere, nonché il valore di una tonalità, di un segno grafico o di un contrasto di colore; tuttavia non saremo mai in grado di svelare la ragione che spingeva Van Gogh a rappresentare su tela quei "puntini luminosi" incisi, appunto, come su di una cartina geografica in cielo.


E di seguito gli altri notturni del maestro, non solo di esterni ma anche di interni.












Il tema della sera e della notte percorre, come tratto comune, tutta l’opera di Van Gogh. L’artista vedeva la sera e la notte come momenti di raccoglimento e creatività, particolarmente adatti alla riflessione sugli eventi della giornata, e perciò «lavorava molto volentieri in queste ore buie che gli davano energia e ispirazione». Van Gogh «vedeva le travolgenti, inarrestabili forze della natura nello spazio aperto, sotto l’immenso cielo, quelle forze che rievocavano la sensazione dell’eternità dell’esistenza e nelle quali l’uomo poteva trovare conforto alla durezza del mondo».

Un bellissimo video-educational su uno dei quadri più famosi della storia dell'arte recente: la Notte Stellata di Vincent Van Gogh

sabato 17 dicembre 2011

Ultime di Banksy

L’ultima opera del misterioso street artist britannico Banksy si chiama Cardinal Sin ed è stata installata ieri nelle sale della Walker Art Gallery di Liverpool, in mezzo alle altre opere seicentesche del museo, dove resterà come deposito a tempo indeterminato. Il bersaglio polemico dell’artista, che in questi anni se l’è presa un po’ con tutte le categorie del potere – i reali, i poliziotti, le popstar e naturalmente le corporation – è la Chiesa cattolica, con diretto riferimento agli episodi di abuso sui minori che hanno dato tanto scandalo negli ultimi anni.


“La statua? Pensatela come un regalo di Natale. In questo periodo dell’anno è facile dimenticare la vera natura della Cristianità: le bugie, gli abusi, la corruzione.”, ha commentato sarcastico Banksy.

Un'altra opera è magicamente comparsa invece sulle pareti della Norwich House, nelle vicinanze del Liverpool War Museum. Si tratta appunto di un nuovo murale raffigurante un biplano monocromo che lascia dietro di sè una scia a forma di cuore.


Da questo link un video con Achille Bonito Oliva dice la sua su Banksy, la Street Art, il pubblico che la guarda e le differenze tra quella americana e quella italiana, senza dimenticare la Pop Art e le culture primitive africane basilari per diverse avanguardie artistiche novecentesche. “Wall and Piece” invece è il primo lavoro di Banksy su carta. Edito da L'Ippocampo, è già un libro cult, in cui l’artista racconta per la prima volta l’essenza del suo lavoro poliedrico.


mercoledì 7 dicembre 2011

La casta dell'arte...parla il blogger Luca Rossi


Il dibattito sul sistema-arte è feroce e tocca qualche nervo scoperto. Il blogger Luca Rossi, gestore di Whitehouse, accetta di intervenire e lo fa a gamba tesa per raccontare ad Affari come è organizzata la Casta e come gestisce i giochi di potere.

Whitehouse è nato nel 2009 e propone una riflessione critica e propositiva che partendo dalle dinamiche del sistema dell'arte e dei suoi linguaggi, arriva ad una riflessione più ampia sul periodo storico attuale. Attraverso la figura di Luca Rossi, il blog ha iniziato a proporre dei progetti indipendenti, mettendo in discussione alcuni codici e convenzioni. Nel 2010 Fabio Cavallucci (direttore del Centro per l'Arte Contemporanea di Varsavia e collaboratore della rivista Flash Art), in un'articolo apparso su Exibart, ha definito così il blogger: "E' la personalità artistica più interessante del panorama italiano di questo momento. Lo è perché, insieme ai contenuti, rinnova anche il linguaggio. In prospettiva, potrebbe modificare anche il sistema".

Il mondo dell'arte è una Casta? Perché? Qualche intervento dei lettori nell'ambito del dibattito accusa di assenza di fondamento questa affermazione...
"Vorrei partire facendo un'utile semplificazione. Potremo dire che il mondo dell'arte italiano è diviso in tre parti: la parte che fa riferimento a Vittorio Sgarbi, la parte che fa riferimento a Luca Beatrice (curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2009) ed una terza parte che, potremmo dire, fa riferimento a due giovani riviste di arte come Mousse e Kaleidoscope (con tutti gli operatori e gli inserzionisti che ne fanno parte). Questo per dare punti di riferimento semplici. La parte del sistema più interessante, come qualità e capacità di esportare all'estero l'arte italiana, è la terza, quella appunto che ruota intorno alle riviste Mousse e Kaleidoscope (che chiamerei il polo Moussoscope). Quindi mi concentrerei su questa parte..."

Ok partiamo da qui...
"Tale sistema è gestito da un'oligarchia di pochi operatori (governo di pochi) mentre il suo pubblico è formato solo da addetti ai lavori e curiosi. Infatti a tale sistema interessa il collezionismo (bastano una dozzina di buoni collezionisti, semmai tra italia ed estero, per tenere in piedi una galleria), compiacere gli addetti ai lavori e guadagnarsi fama sulla scena internazionale. L'assenza di un pubblico è paragonabile all'assenza di "opinione pubblica" negli stati democratici: non c'è interesse e controllo su questa oligarchia".

Quindi? 
"In Italia esiste un divario fortissimo tra questa parte del sistema e il pubblico (e di conseguenza anche tra tale parte e il sistema politico): l'operazione "volgare" di Sgarbi si insinua proprio in questo vuoto mantenuto colpevolmente in vita da quella che può chiamarsi Casta, che può liberamente 'sguazzare' tra il conflitto di interessi, i favoritismi relazionali e di tipo commerciale. La conseguenza? Un disincentivo forte all'emergere di situazioni virtuose e di qualità. Anzi i fantomatici critici di questo sistema non operano mai un'azione realmente critica verso questa Casta, né dal punto di vista dei contenuti (quindi del'arte) né col tentativo di eliminare i "giochi di potere". Questo perché ogni critico, ogni addetto ai lavori teme di perdere un possibile ingaggio futuro andando contro tale Casta".

E per quanto riguarda l'aspetto finanziario? Il business? 
"La Casta opera anche sulla lievitazione dei prezzi delle opere, senza partire da alcuna base critica, ma solo sull' alleanza tra 2/3 operatori- amici. Questo crea sulle opere d'arte un'effetto Parmalat e mentre il risparmiatore protesta perché rivuole il suo denaro, il collezionsita che ha subito un bidone sta zitto per paura di perdere il suo status sociale e per paura di non poter più rivendere la sua opera-bidone. Ma l'anomalia più paradossale è che questo sistema, oltre ad essere criticabile sul piano etico-morale, è inefficace e non produce risultati positivi sulla scena internazionale".

Può fare qualche esempio?
"Se lei intervistasse alcuni operatori, anche molto autorevoli, le direbbero che gli artisti italiani vengono ignorati dalla scena internazionale. Questo perchè la Casta mira, prima di tutto, a disincentivare l'innovazione, l'approfondimento critico e quindi la qualità. Nomi come Cattelan, Vezzoli, Beecroft, Bonvicini, che hanno consolidato la loro fama all'estero negli anni '90, ce l'hanno fatta solo lanciandosi da soli in un sistema internazionale". 

Ha altre informazioni dettagliate da raccontare?
"Ci sono casi di conflitto di interessi, alleanze commerciali tra fondazioni private, gallerie private e curatori".

Qual è il punto sul quale si sente più critico?
"Il punto essenziale è che i giochi di potere penalizzano la qualità, importante qui e all'estero; rendono quella che dovrebbe essere la parte 'migliore' dell'Italia precaria, condannando molti giovani brillanti a vivere alle spalle di quella che ho chiamato "Nonni Genitori Foundation" (vero ammortizzatore sociale del sistema dell'arte italiano). Tale sistema produce illusioni e delusioni per gli studenti che escono dalle accademie e dalle scuole".

Conosce esperienze dirette o indirette di artisti che a causa di questa Casta non riescono a decollare? 
"Conosco esperienze dirette ed indirette di curatori e critici che trattano in modo sprezzante gli artisti e che decidono le mostre mandando qualche e-mail ad alcuni amici. Conosco di favoritismi nei confronti di artisti di certe gallerie e non di certe altre. Conosco gallerie private che forniscono agli artisti condizioni economiche inaccettabili e fuori da qualsiasi etica del lavoro. Bisogna considerare che da 10-15 anni le file dei giovani artisti sono sempre più numerose e quindi c'è sempre qualcuno disposto a prendere il posto di chi si rifiuta di sottostare a certi diktat. Questo provoca un circolo vizioso che disincentiva ulteriormente la qualità. In questo sistema oligarchico gli artisti sono la parte piu' debole del sistema. I piu' forti sono i curatori, gli organizzatori, che spesso nascondono, in modo piu' o meno celato, aspirazioni artistiche da 'prime donne'. Gli artisti, e soprattutto i piu' giovani e quindi quelli di domani, sviluppano una 'sindrome arrendevole' esattamente come fossero 'operai non specializzati tenuti in ostaggio' da un sistema capace di escluderli nel caso non siano disposti a compromessi". 

Di che cosa si occupa il suo blog?
"Nella figura del blogger convergono tutti i ruoli del sistema dell'arte (artista, curatore, critico, direttore di rivista, spettatore, commentatore, collezionista, gallerista, ecc). In questo modo è possibile organizzare un'azione indipendente che possa bypassare le deficienze del sistema reale e della Casta. Quindi oltre ad esprimere una visione critica rispetto ai contenuti e ai giochi di potere, viene anche proposta un'alternativa concreta fatta di progetti e mostre fruibili nella realtà. Tale attività ha interessato alcuni operatori autorevoli come Fabio Cavallucci, Roberto Ago, Alfredo Cramerotti, Giacinto Di Pietrantonio, Andrea Lissoni, Micol Di Veroli, Stefano Mirti. Questo interesse è scaturito anche in operatori che sono stati criticati dal blog, ma che hanno accettato il confronto ed il dialogo".

Vede all'orizzonte una possibile soluzione?
"Devo dire che in questi due anni di attività l'azione solitaria del blog ha determinato una maggiore apertura della Casta. In ogni caso è molto difficile modificare così velocemente alcune dinamiche ed alcune situazioni. Bisogna far capire alla Casta che il suo comportamento è fondamentalmente inefficace e che sarebbe nel suo interesse favorire una maggiore apertura critica e un maggiore confronto su i contenuti. Sembra strano ma il blog Whitehouse è l'unico luogo in Italia dove viene sviluppata un'azione critica".

E delle altre due parti che mi ha citato all'inizio del percorso?
"Sono ancora peggio di quella che ho descritto ora che è la parte 'migliore' del sistema. La parte di Luca Beatrice e quella di Vittorio Sgarbi, in modo più radicale, offrono situazioni sintomatiche sia dal punto di vista dei contenuti che delle dinamiche relazionali interne. Il progetto di Sgarbi per il suo Padiglione Italia mette in luce la sovraproduzione di opere, artisti che vengono trattati come polli in batteria, gioco delle raccomandazioni, opere d'arte come accessori marginali e decorativi in favore della personalità artistica del curatore, incapacità di definire scale critiche e valoriali come punti di riferimento per la qualità".

Quali sono secondo lei personaggi positivi (che si spendono per rompere il sistema della Casta) e quali negativi (lo portano avanti)?
"Se considera quanto detto precedentemente è molto difficile l'emergere di personaggi veramente positivi. Tutti temono di perdere future opportunità di lavoro. Alcuni personaggi hanno perso il lavoro perché qualche potente pensava che lavorassero al mio blog. In Italia la Casta possiede diversi centri di potere, soprattutto sull'asse Torino, Milano, Venezia, Bergamo. Ci sono operatori aperti al dialogo, ma che poi non fanno nulla per invertire certe tendenze, mi riferisco ad Angela Vettese. Operatori che predicano bene e razzonalo male, mi riferisco a Pier Luigi Sacco (che con la Vettese e Carlos Basualdo dirigono il festival internazionale dell'arte contemporanea a Faenza). Ci sono operatori giovani estremamente devoti alla Casta quali Milovan Farronato ed Alessandro Rabottini; alleanze tra professori e sistema per favorire gli studenti di certe scuole in modo tale che tali scuole siano legittimate (mi riferisco al caso virtuoso del professore/artista Alberto Garutti a Brera); esistono operatori della Casta estremamente aperti al dialogo come Giacinto Di Pietrantonio; galleristi silenti come Paolo Zani della Galleria Zero o il gallerista Massimo Minini; direttori di riviste, come Giancarlo Politi di Flash Art, incerti tra l'abbracciare la mia azione o censurarla; operatori autorevoli molto più aperti e fattivi come Fabio Cavallucci, Alfredo Cramerotti ed Andrea Lissoni. Giovani operatori come Roberto Ago che dalle pagine di Flash Art tentano di rendere la mia azione più accettabile ed efficace rispetto le anomalie del sistema italiano". 

...
"Per concludere vorrei sottolineare che questa parte del sistema italiano, quella che ha maggiori possibilità sul piano internazionale, produce, e sarebbe in grado di produrre, il meglio che si possa fare in Italia. Questo non avviene solo per una forma di "stupidità generale" che condanna il sistema italiano alla precarietà interna e alla totale marginalità sul piano internazionale".

lunedì 5 dicembre 2011

In giro per mostre a Roma - da Raffaello e Michelangelo a Caravaggio

Torno a scrivere dopo diverso tempo e vorrei riprendere con alcune impressioni derivate dalle ultime frequentazioni romane. Si parla di mostre e si deve allora subito distinguere tra due prospettive: la visita per ammirare dal vivo capolavori e opere studiate solo sui libri, in un percorso esclusivamente di fruizione estetica, e la visita che dovrebbe lasciare una traccia anche livello formativo, ovvero dovrebbe accrescere le nozioni su un determinato periodo storico seguendo un'ottica scientifica e non esclusivamente didattico-manualistica. Il problema principale è la degradazione della mostra a semplice e basso evento di consumo turistico-propagandistico. Lo spiega bene Montanari nell'articolo Il sonno della ragione genera mostre quando scrive "Per rendere vero il luogo comune consolatorio per cui ‘le mostre avvicinano al patrimonio artistico e alla cultura il grande pubblico’, esse dovrebbero, al contrario, stimolare il senso critico ed il pensiero, non l’evasione e la distrazione. Una mostra potrebbe definirsi educativa se il pubblico uscisse dall’ultima sala persuaso a recarsi in un museo, in una chiesa o in una libreria per colmare alcune delle lacune intellettuali o culturali emerse durante la visita. E invece accade tutto il contrario". Per secondo spesse volte ci si trova con allestimenti completamente finti e spaesanti che alterano la percezione dell'opera spingendo più verso un'atmosfera di maniera che verso una lettura pulita e funzionale. Primo imputato è la mostra Il rinascimento a Roma. Nel segno di Michelangelo e Raffaello. Ambiente inadeguato, allestimento pessimo e claustrofobico, tentativo di definizione di un periodo di per se complesso e articolato (la prima metà del 500), scelta di opere prese in larga parte da musei romani (e quindi fruibili nel loro contesto in un raggio di poche miglia), inserimento di opere non legate al contesto romano (come la scelta dei Raffaello, di certo i primi che hanno avuto a disposizione, tanto per inserire il gettone di presenza). Tra le poche cose che si salvano, oltre ribadisco la valenza estetica delle singole opere, il commovente originale della celebre lettera di Raffaello a Leone X, lo splendido disegno di Raffaello del Pantheon (tra le prime vedute esatte di monumenti romani), la produzione privata dell'ultimo Michelangelo con il confronto delle tavole (autografe?) della crocifissione e della pietà. 



La mostra Roma al tempo di Caravaggio appare ancor più un disastro. Le chiese romane sono state completamente depredate di pale d'altare (ben 40 in mostra) esposte poi su falsi e stucchevoli altari in finto marmo che rimandano un'atmosfera cupa e cimiteriale, da film dell'orrore. Se lo scopo era una ricognizione scientifica, infatti, niente di meglio sarebbe derivato da un allestimento pulito e minimale, anche asettico, che mettesse in evidenza l'opera prima di tutto e non la relegasse a pura immagine di se stessa. La Madonna dei Pellegrini, all'ingresso, in una posizione per nulla meritevole messa a confronto con non notevole tela dalla scuola dei Carracci. Percorso con poco filo logico, se si esclude una divisione prettamente cronologica. Troppe tavole didattiche sotto le opere che rischiano di smarrire lo sprovveduto visitatore Errore nelle iconografie con l'Allegoria di Roma di Valentin de Boulogne che diventa una retorica Allegoria dell'Italia. Ennesimo tentativo di far passare per originale di Caravaggio una tela privata (il sant'Agostino) recentemente scoperta. Quindi poca scientificità. Si spera che contributi interessanti vengano dalla seconda parte del catalogo, con nuovi saggi (ma anche il catalogo generale risulta interessante), e dal ciclo di conferenze: da non perdere quella della Macioce sul Caravaggio attraverso le incisioni (tema pochissimo affrontato), quella sulla pittura di paesaggio a Roma e su Roma vista da Milano. Tra le cose interessanti in mostra, invece, lo splendido lacerto della grande tela di Sezze di quel geniale caravaggista che fu Orazio Borgianni (dal quale questo blog, finalmente lo sveliamo, ha preso l'immagine di copertina), il poetico confronto tra le due Madonne con bambino di Orazio e Artemisia Gentileschi, l'altro confronto tra l'Angelo custode di Antiveduto Grammatica e il Tobiolo e l'angelo dello Spadarino, la bellissima Sacra Famiglia di Cavarozzi, il Martirio di Santa Caterina di Reni, lo sfondo neutro della sepoltura di Cristo di van Baburen da San Pietro in Montorio. Un recente articolo di Tomaso Montanari sulla mostra Roma e Caravaggio, scopriamo gli altarini, sintetizza bene tutti i punti negativi dell'esposizione.


Infine, girando nei pressi di Piazza Navona, non ho potuto non notare il Pasquino restaurato. Incredibilmente, ignorando del tutto la sua gloriosa storia, non è più possibile affiggere invettive e satire sul basamento poichè è stato posto a fianco un'anonimo totem di ferro che dovrebbe accogliere i versi.


Il Fatto Quotidiano, Tommaso Montanari, 2 dicembre

ALTO TRADIMENTO. Roma al tempo di Caravaggio non è solo l’ennesima kermesse caravaggesca promossa da Rossella Vodret nei due anni che sono passati dalla sua nomina a soprintendente di Roma: è letteralmente un atto di alto tradimento, culturale e professionale. La frenesia caravaggesca della dottoressa Vodret è tale che, al posto del Bacco di Bartolomeo Manfredi, a Palazzo Venezia c’è un cartello che informa che l’opera arriverà solo il 1 dicembre, al ritorno dalla inconsistente mostra su «Caravaggio en Cuba», sempre realizzata su progetto della Vodret.

Insomma, per disciplinare il traffico aereo dei Caravaggio movimentati dalla soprintendenza di Roma ormai ci vuole una torre di controllo dedicata. Ma la cosa più grave di Roma al tempo di Caravaggio è che quasi quaranta opere sacre sono state strappate dagli altari veri che ancora le accolgono nelle chiese per essere esibite a Palazzo Venezia, rimontate su finti altari di finto marmo, in una specie di galleria cimiteriale per cui davvero non c’era bisogno di scomodare Pier Luigi Pizzi. In questo momento le chiese di Roma sono dunque ridotte ad un colabrodo, anche perché quello di Palazzo Venezia non è l’unico luna park in attività: la stessa Vodret ha, per esempio, autorizzato l’espianto dalla Cappella Cerasi (in Santa Maria del Popolo) e la spedizione a Mosca della Conversione di Paolo di Caravaggio, un atto che distrugge (pro tempore, salvo incidenti) uno dei pochi ecosistemi artistici del tempo di Caravaggio che ci sia arrivato intatto.

E ai musei non va molto meglio: i pochi caravaggeschi dell’appena inaugurato Palazzo Barberini che non sono a Cuba sono stati deportati in Piazza Venezia, e anche la Galleria Borghese e la Corsini hanno pagato un alto prezzo all’ambizione della soprintendente. D’altra parte, quale sia la considerazione della soprintendenza per i musei, lo dice lo stato del disgraziatissimo Museo Nazionale di Palazzo Venezia, che sembra sempre il parente povero della mostra di turno nello stesso palazzo un degrado espresso perfettamente dal busto quattrocentesco di Paolo II ridotto a decorazione del guardaroba della mostra. E sta proprio qua l’alto tradimento: è la soprintendente stessa a lacerare il fragile e unico tessuto artistico romano che è pagata per difendere. In un conflitto di interessi intollerabile, la Rossella Vodret curatrice della mostra chiede i prestiti alla Rossella Vodret soprintendente: e, non sorprendentemente, li ottiene tutti. Tutto questo per una mostra che non ha nulla - ma davvero nulla - a che fare, non dico con la ricerca scientifica degli storici dell’arte seri, ma nemmeno con un buon progetto di divulgazione. Il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele E. M. Emanuele, scrive in catalogo che l’«assunto scientifico dell’esposizione è il confronto tra le due correnti del naturalismo e del caravaggismo»: che, invece, sono la stessa cosa.

Ma non bisogna fargliene troppo carico, perché è davvero difficile capire quale sia, quel famoso assunto: il “tempo di Caravaggio” (morto nel 1610) viene infatti dilatato fino al 1630, dimenticando un secolo di distinzioni storico-critiche e ammannendo al pubblico un polpettone indigeribile. Fin dalla prima sala (dove tiene banco un confronto, malissimo impostato, tra un capolavoro di Caravaggio e una tela della bottega di Annibale Carracci), la mostra appare dilettantesca, slabbrata, disinformata: una mostra come la si sarebbe potuta fare nel 1922. E nel 2011, con un tavolo pieno di monografie, tre milioni di euro in tasca e una buona ditta di traslochi a disposizione, l’avrebbe fatta meglio un laureando qualunque dei (pessimi) corsi triennali in Valorizzazione dei Beni culturali.

Ciliegina sulla torta, ecco la strizzatina d’occhio al mercato dell’arte. Finalmente tutti possono vedere il quadro lanciato a giugno come un Caravaggio a prova di bomba. L’esame diretto conferma che il SantAgostino è un gran bel quadro: ma dipinto trent’anni almeno dopo la morte del Merisi. A parte la curatrice della mostra, il proprietario e la professoressa Danesi Squarzina (che lo ha pubblicato), nessuno crede all’attribuzione a Caravaggio. Una pattuglia di specialisti autorevoli (tra cui Ursula Fischer Pace) pensa che sia un’opera del cortonesco Giacinto Gimignani, mentre a me ricorda addirittura le primissime prove di Carlo Maratti nella bottega di Andrea Sacchi (1640 circa).

Comunque sia, siamo lontani anni luce da Caravaggio: e ora c’è solo da sperare che non si provi a rifilarlo allo Stato italiano per qualche milione di euro. Non molti sanno che in Senato giace da mesi un’interrogazione in cui il senatore Elio Ianutti (IDV) chiede al ministro per i Beni culturali perché Rossella Vodret ricopra il posto di Soprintendente di Roma senza esser mai riuscita a superare un concorso da dirigente. Ebbene, dopo il colossale disastro di «Roma al tempo di Caravaggio», la soprintendente di Roma potrebbe prendere in considerazione una soluzione che farebbe risparmiare tempo al Senato e al suo ministro: dimettersi.


venerdì 18 novembre 2011

Corteo

Settimo Sigillo, fotogramma, 1957
Ueda Shoji, Corteo di forme stilizzate, 1978

martedì 15 novembre 2011

Pier Luigi Sacco - Dove va la cultura?


La lucida analisi di Pier Luigi Sacco sulla cultura 2020. Testo integrale dell’intervento alla "Giornata di studio sulle fondazioni di partecipazione" del Giornale dell’Arte, a Rivoli - 18 ottobre 2011


Rivoli. Dopo l’analisi tecnica degli strumenti, vorrei fare una riflessione sul senso del loro utilizzo, partendo dal ruolo che la cultura sta iniziando a svolgere sulla nostra economia e sulla società. Vediamo ancora oggi delle paradossali inversioni di logica, per cui prima si producono strumenti e poi si decide cosa farne. 
Gran parte dei vicoli ciechi che noi vediamo, legati all’indubbia crisi economica e di sostenibilità che stanno attraversando le istituzioni pubbliche, derivano dal fatto che noi continuiamo a ragionare su un ruolo della cultura messo in discussione da ciò che sta accadendo, che è destinato ad evolvere in svariate direzioni. Vorrei spiegare brevemente quali, calando questa riflessione su un contesto più ampio, il contesto europeo. Non solo siamo in un periodo di crisi economica e in un momento di profonda ridefinizione del senso dell’intervento pubblico nella cultura, ma anche alla vigilia di un ciclo importante su scala europea, che è il nuovo ciclo di programmazione dei fondi strutturali 2014-2010. 
Per l’Europa non è soltanto una scadenza tecnica, ma una scadenza strategica di enorme valore perché intorno a questo ciclo si connettono tutta una serie di orizzonti. 
Dal 2014 al 2020 vedremo scaricare sull’Europa i veri costi della stabilizzazione finanziaria. Saranno gli anni in cui si deciderà davvero se la cultura ha un ruolo all’interno di una strategia di lungo termine di sviluppo europeo, o se è solo un fatto di cosmetica. Sempre che l’Europa esista ancora; uno scenario orribile, ma a cui gli analisti attribuiscono una percentuale piccola, ma positiva. Ammettendo che l’Europa esisterà come tutti ci auguriamo, bisognerà capire quale sarà la collocazione della cultura. La scadenza del 2020 va a coincidere con un altro orizzonte molto importante, che è lo scenario dell’Europa 2020. Dopo il sostanziale fallimento della strategia di Lisbona, rappresenta l’upgrade che l’Europa si è data, nel quale la cultura aveva inizialmente un ruolo molto marginale e che sta rapidamente aumentando, ma che richiederà un grandissimo sforzo. Altro punto è che proprio nel 2020 inizierà un nuovo round del programma delle capitali europee della cultura nel quale saranno coinvolti progressivamente, all’interno della programmazione, paesi extra-europei. Non in via eccezionale, ma sistematica, strutturale. A livello europeo si sta riflettendo soprattutto su un aspetto: questo allargamento di scenario comporta la rimessa in discussione di che cosa intendiamo per cultura. Oggi la cultura è capace di connettere tutta una serie di soggetti, per creare valore economico e sociale, alcuni dei quali apparentemente non di natura culturale. In Italia abbiamo una percezione distorta di questo dibattito perché, a parte alcuni operatori, non ci siamo accorti che tutto l’aspetto della filiera su cui noi tendiamo a lavorare - che ha a che fare con il patrimonio storico, la sua valorizzazione, i musei, le mostre, e persino i grandi eventi - rappresenta un segmento abbastanza piccolo di quello che è lo scenario della cultura a livello europeo, che è molto più centrato sulle tematiche che hanno a che fare con la produzione creativa e con l’imprenditorialità. Un tema che da noi è stato clamorosamente sottovalutato, tanto che l’Italia è uno dei pochi paesi dell’Europa a 27 a non avere una strategia per la produzione creativa e, malgrado la gravità di questo fatto, è una situazione che continua a persistere.
Un paradosso, se pensiamo che l’Italia è la prima nazione in Europa per Regioni che hanno una alta incidenza di occupazione creativa: nelle prime 25 d’Europa, ce ne sono ben 5 italiane. In Italia esiste ancora questa contrapposizione concettuale tra una cultura non profit e una cultura profit, legata a una concezione tardo ottocentesca e inizio novecentesca che è ampiamente superata dai fatti ma che in Italia continuiamo a replicare. Il tema stesso dell’imprenditorialità creativa, che malgrado i ritardi ci dobbiamo porre urgentemente come condizione sine qua non per agganciarci alle strategie di sviluppo europee, viene superato da una transizione ancora più rapida, sfumando in qualcosa di ancora più complesso. L’insistenza dell’Europa sul tema dell’industria creativa fa riferimento ad un modello, che è quello dei mercati culturali di massa, che ha funzionato per tutto il ‘900, frutto della rivoluzione industriale a cavallo tra ‘800 e ‘900 che ha fatto nascere il cinema, la fotografia, la televisione. Tutto un ciclo di innovazione tecnologica che ha avuto un impatto molto forte in termini di ampliamento del pubblico della cultura. 
Ciò che sta accadendo oggi, è estremamente rilevante nelle sue implicazioni, ma facciamo estremamente fatica a capirlo -perché ripeto noi in Italia continuiamo a pensare alla cultura riferendoci a quel segmento che non ragiona in termini di industria culturale- è il fatto che questa nuova ondata di innovazione tecnologica sta producendo un doppio effetto. 
Da un lato oggi esiste un’incredibile accelerazione nella capacità di produrre contenuti creativi, anche da parte di persone che tecnicamente non sarebbero dei professionisti. Oggi con un computer è possibile produrre contenuti (audio, video, etc) che vanno tranquillamente sul mercato e che possono competere con quelle dei grossi players. Questo è il primo aspetto, un’accelerazione pazzesca nella capacità produttiva che 20-25 anni fa sarebbe costata centinaia di migliaia di euro, se non milioni. 
Dall’altro lato, c’è un secondo aspetto che è quello della connettività. Oggi chi produce cultura si connette facilmente con altre persone che producono cultura, e questo genera dei meccanismi di circolazione dei contenuti culturali che spesso non passano sul mercato, che circolano e che a tutti gli effetti producono valore sociale e indirettamente anche valore economico. 
Aspetti sono particolarmente importanti perché si sommano. Un grande salto nella capacità produttiva senza la connettività replicherebbe sostanzialmente le vecchie logiche: ci sarebbe solo più gente che cercherebbe di farsi notare da una casa discografica o da un distributore di film. Tanta connettività senza capacità produttiva sarebbero tante chiacchiere, ma con i pochi in grado di produrre, esattamente come in passato. 
E’ la somma di questi due fattori, una grande accelerazione della capacità produttiva e una grande accelerazione della connettività, che crea una situazione totalmente nuova nella quale la contrapposizione tra chi produce contenuti e chi ne fruisce non esiste più. Le nuove generazioni, quelle dei nativi digitali, non sono più le persone che pensano naturalmente in termini di autori e pubblico, ma sono persone che si sono abituate a ragionare in modo interamente intercambiabile perché di volta in volta adottano un ruolo piuttosto che un altro. Alcuni di loro fanno di questa produzione di contenuti una professione o un impegno permanente, altri no, ma il panorama è totalmente sfumato. Quando queste persone si trovano a ragionare in determinati contesti di esperienza culturale, sono sempre meno interessati a delle modalità di fruizione come quelle tradizionali a cui noi li sottoponiamo. Questo nostro continuare a ragionare sulla sostenibilità della cultura basato sul modello che contrappone domanda e offerta sul mercato o addirittura all’interno di un sistema di trasferimenti pubblici, è semplicemente superato dai fatti. Non perché tutto ciò non sia più valido, ma perché il modello retrostante cambia completamente. Se noi ragioniamo sugli strumenti di sostenibilità o sulla capacità di affrontare la crisi senza renderci conto che nel frattempo questa realtà sta cambiando, ragioniamo su un problema totalmente mal posto. Questo mutamento di prospettiva cambia totalmente quello che noi intendiamo per cultura non facendola passare più necessariamente attraverso i meccanismi classici, né dello Stato né del mercato, così come siamo abituati a considerarli. Un esempio. Una delle prospettive che emerge da questo cambio naturale di focus della produzione di valore economico e sociale attraverso la cultura, è la prospettiva di grande valore futuro del cosiddetto cultural welfare. Iniziamo a disporre di dati di precise sperimentazioni e trials clinici pilota- uno di questi è quello che verrà lanciato in Piemonte nell’area di Cuneo-Fossato dove le ASL si sono dette disponibili a lavorare su questo pilota; si tratta di un progetto congiunto IULM-Fondazione Bracco sul quale stiamo lavorando come pilota a livello europeo. 
Stiamo scoprendo quanto segue. 
La partecipazione culturale delle persone, a prescindere dal fatto che questa avvenga su basi di maggiore o di minore competenza, fa sì che ci sia un impatto sulla percezione soggettiva di benessere psicofisico degli individui, misurata secondo una scala con una precisa legittimazione clinica, denominata psichological general wellbeing index, usata da circa quarant’anni. 
Qual è il risultato che si ottiene? Se vogliamo capire quanto si sente bene una persona dal punto di vista psicofisico, il primo macrofattore che dobbiamo considerare è quante malattie croniche pensa di avere, il secondo è quali sono le sue abitudini di accesso culturale, che risultano più importante di età, genere, reddito. Se noi disaggreghiamo ulteriormente questa descrizione, non ragionando in modo generale in termini di malattie, accesso culturale, ma guardando a singoli aspetti, viene fuori che il predittore più efficace del livello di benessere psicologico di una persona è quanti concerti di musica classica o jazz ascolta in un anno, ed è più importante di sapere se la persona crede di avere in cancro. Qual è la conseguenza? Cambia drasticamente il tasso di ospedalizzazione e di medicalizzazione; soprattutto le persone anziane e con più malattie croniche che sono sottoposte regolarmente a una opportunità di accesso culturale si ospedalizzano e si medicalizzano di meno. 
Se questo volesse dire che l’accesso culturale costante diminuisce dell’1% il tasso di ospedalizzazione, a livello di macroeconomia del welfare cambierebbe tantissimo. Non soltanto cambia drasticamente il benessere delle persone, fa risparmiare lo Stato e i processi si autofinanziano. 
Dobbiamo ragionare sulla cultura con una nuova prospettiva di valore economico e sociale della cultura; quelli che sembrano dilemmi apparentemente insolubili diventano opportunità. Ciò che deve cambiare veramente è la nostra capacità di aggredire questi problemi in modo completamente nuovo, ovvero ragionare su politiche di qualità sociale, nelle quali la partecipazione culturale è un elemento fondamentale di cittadinanza attiva. 
Non possiamo immaginare dei modelli di cittadinanza che prescindano dalla partecipazione culturale, mentre tuttora continuiamo a fare discorsi sulla cultura senza renderci conto che il nostro problema è quello di integrare questo tipo di processi all’interno di modelli di cittadinanza attiva. 
Il 2012 sarà l’anno europeo dell’invecchiamento attivo, in cui l’Europa si concentrerà su questo tipo di tematiche. La capacità di un territorio di cavalcare questi nuovi scenari creerà nuove opportunità. 
Altro esempio. Siamo in grado di dimostrare (da ricerca Multiscopo Istat, rappresentativa dell’intera popolazione italiana), come l’accesso culturale cambia l’efficienza della raccolta differenziata. Le persone che accedono sistematicamente alla cultura imparano a classificare la spazzatura perché tengono la mente attiva e perché sono motivate a capire la relazione che esiste tra i micro gesti quotidiani e ciò che è nell’interesse della società. 
Esiste una relazione molto forte tra accesso culturale e capacità innovativa di un paese, che fa sì che le persone, quale che sia il loro ruolo all’interno della società, siano più predisposte a considerare idee nuove e a mettersi in discussione. Se si somma l’effetto macroeconomico di ciascuno di questi canali, nessuno dei quali si badi passa attraverso il mercato, il risultato è sbalorditivo. Sapete quali sono i paesi che a livello europeo hanno i più bassi tassi di accesso culturale? Italia, Spagna, Portogallo,  Grecia e Irlanda. Perché? Che rapporto può esistere tra accesso culturale e stabilità finanziaria?
Da dove deriva il problema di stabilità finanziaria di questi paesi? In parte da un problema di opinione pubblica, da un insufficiente meccanismo di controllo sociale che l’opinione pubblica esercita su determinati meccanismi di spesa, che portano poi all’accumulazione del debito. Persino questo, come effetto non irrilevante, potrebbe essere legato alla capacità di controllo sociale esercitata dalla partecipazione culturale.
Se sommiamo macro economicamente questi effetti, ci rendiamo conto che l’impatto è gigantesco. Cominciare a ripensare la cultura in questi termini ci dà una diagnosi del perché l’Italia non cresce più e un’idea chiara di come i conti in cultura non debbano essere fatti in termini di produzione più o meno di un evento, ma andando a capire quali sono i reali effetti economici e sociali del sostegno alla cultura. Per cui gli stessi trasferimenti pubblici alla cultura non vanno più valutati, in termini di audience, ma valutando le trasformazioni comportamentali che questo genera. Ci sono dei paesi europei in cui questo inizia ad avvenire sistematicamente, come ad esempio la Polonia, per lungo tempo fanalino di coda per partecipazione culturale. 
Negli ultimi anni la Polonia sta crescendo a tassi rapidissimi dal punto di vista della partecipazione culturale e ciò si deve ad un meccanismo di attivazione dal basso che ha a che fare con una comprensione, magari non consapevole, delle dinamiche di cui ho parlato. Fino a pochissimi anni fa in Polonia la percentuale di spesa culturale non arrivava allo 0,2%.
Un movimento auto-organizzato dai cittadini crea, a partire dal 2009, una piattaforma che si pone come interlocutore diretto delle istituzioni politiche per convincere il governo polacco a portare la spesa per la cultura all’1% entro il 2015, ma non solo ad aumentare la spesa, ma a specificare, come un vero contratto sociale, quali sono i criteri su cui si deve aumentare questo criterio di spesa: l’inclusione sociale, la partecipazione intesa come capability building, la capacità di partecipare ai processi creativi anche in una dimensione imprenditoriale  e una ridiscussione del ruolo dei media pubblici per costruire dei modelli educativi condivisi e infine l’idea di far si che tutto questa permetta la garanzia di un pluralismo di espressione e di un approccio critico verso la società anche di fronte ad opinioni radicalmente diverse rispetto a quelle del governo. 
Questo processo inizia nel 2009, arriva a creare un documento programmatico a metà del 2010 e ha fatto sì che nel maggio 2011 si sia creato un vero patto sociale firmato dal presidente del Consiglio  che ha creato una commissione di controllo, mista del comitato promotore e dello Stato, per monitorare lo sviluppo del processo. E’ un  paese che ha saputo decuplicare il livello di spesa pubblica a fronte di un’azione collettiva lucidamente condotta e basata su quei criteri di cui parlavo, il senso di una partecipazione culturale e non di una spesa culturale fine a se stessa. Questo esempio ci deve insegnare. 
Il dibattito sulla sostenibilità della cultura è povero perché è povero di visione sul reale impatto trasformativo della cultura sulla società. Continuiamo ad attaccarci a stereotipi con una bassissima presa sull’opinione pubblica per cui sappiamo che in tutte le nostre amministrazioni locali, quando si tratta di ragionare sulle scelte tragiche di bilancio, la cultura ne paga sempre le spese. E’ dunque su questo tipo di basi che bisogna poi andare a ragionare sugli strumenti. Di volta in volta problematiche diverse richiedono strumenti diversi. Un esempio nel quale mi sono trovato a lavorare e che richiedeva uno strumento che avesse a che fare con la fondazione di partecipazione, ma che aveva delle peculiarità di contesto locale, è la Basilica Palladiana di Vicenza, terza provincia industriale d’Italia con un patrimonio storico eccezionale di eredità palladiana. Per molto tempo la  Basilica Palladiana è stata un gigante dormiente finché non si è deciso, grazie al contributo della Fondazione Cariverona di restaurarla e di farla diventare un contenitore culturale, restituito alla città. Il progetto è stato reinventato nella logica di cui vi parlavo prima, immaginando la Basilica Palladiana non solo come un posto dove vedere mostre, ma un posto dove generare forme di pensiero creativo che si leghino alle competenze produttive del territorio, una fortissima specializzazione industriale con fortissimo orientamento al design. Un territorio che non ha bisogno tanto di uno spazio espositivo quanto un luogo dove connettere ai temi della partecipazione culturale le questioni legate alla sostenibilità dei processi innovativi. Si è pensato così di fare della Basilica Palladiana una struttura multilivello, nella quale convivano un incubatore di impresa creativa, peraltro connesso alla più importante rete europea in questo campo, un centro di residenza creativa che serve a creare forme di diplomazia culturale con altri territori orientati all’innovazione e uno spazio espositivo, uno spazio di condivisione culturale offerto alla città. Questo progetto funziona se va a coinvolgere tutti i soggetti del territorio con una modalità fortemente partecipativa. Dopo un lavoro di analisi col sistema imprenditoriale locale, ci si è resi conto però che in questo caso lo strumento della fondazione di partecipazione – anche nella sua forma più flessibile – non avrebbe raccolto sufficienti adesioni. In questo caso si è lavorato dunque su un’organizzazione a due livelli creando una fondazione di partecipazione che metta insieme il segmento istituzionale, sia pubblico che privato, che controlla a sua volta una società per azioni strumentale nella quale entrano con finalità prevalentemente orientate alla gestione i privati, in questo caso le aziende. Un modello che non rappresenta la panacea, ma che in quel caso risultava la soluzione migliore. 
Nel momento in cui è chiaro quale è il modello condiviso di sviluppo sul quale vogliamo lavorare, lo strumento per mettere insieme le energie si trova. Il vero problema è chiarirsi il primo punto, se non si riesce ad aggregare il territorio, a costruire una vera progettualità, non ci sarà strumento che tenga. Questo è senz’altro un momento difficile, ma è proprio nei  momenti difficili che si può innovare veramente. Gli spazi ci sono e l’Europa è particolarmente interessata a queste tematiche. 
Non accettiamo la formulazione del problema che continua ad esserci proposta, dobbiamo avere il coraggio, l’intelligenza, la flessibilità mentale per capire che il problema può essere ridefinito in un modo tale che non solo ci apre degli spazi, ma delle opportunità che mai avremmo sospettato. 
ll momento di crisi si può trasformare in una rifondazione delle politiche culturali a livello di territorio. 

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...