domenica 17 ottobre 2010

Nelle scatolette di Manzoni solo gesso


Si scopre, così, secondo le affermazioni di Agostino Bonalumi, amico di Piero Manzoni, che nelle famose scatolette, tra le opere più dissacranti dell'artista, non ci sarebbe "merda" ma solamente del gesso. Di seguito l'articolo del Corriere con l'intervista.


«Pane, salame e formaggio con vino di Barbera asciutto. Quanto le possiamo offrire alla riunione presso la galleria del Prisma dove sono esposte le nostre recenti opere. L' appuntamento è per mercoledì 25 febbraio 1959 alle ore 18. Due chitarristi e una chanteuse improvvisata ravviveranno la serata. L' aspettiamo con amici». Firmato: Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Piero Manzoni. Questa - per quanto consentivano le nostre tasche, e la nostra fantasia - la promessa che avrebbe interessato almeno qualche curioso, oltre i soliti amici. Ottenemmo qualche presenza insolita. Ci consolava il pensiero che la mostra sui taxi di Milano, anche senza fantasiosi inviti, era stata certamente più frequentata grazie ai buoni uffici dei tassisti. Bilancio, a mostra finita: nessuna vendita, e lodi più divertite che ragionate, dei soliti amici. Liberammo la modesta sala della galleria la sera dell' ultimo giorno di mostra lasciando le opere impacchettate, pronte per il ritorno ai rispettivi studi. La sera era piovigginosa e fredda. Al bancone del Giamaica, per il solito «bianchino», incontrammo Romano Lorenzin, un appassionato collezionista che aiutava i giovani artisti, acquistando saltuariamente qualche opera. Per noi, niente da fare, anche se correva qualche sguardo di complicità: stai a vedere che a mostra già chiusa vendiamo qualcosa di nostro a Lorenzin. Azzardiamo una proposta: un' opera di ciascuno di noi a buon prezzo. «No, non sono interessato. Sapete... Amo altre cose». «Ma a metà prezzo», diciamo, consapevoli di proporre la metà di qualcosa di cui non s' era detto l' intero. Un altro diniego. «Neppure in regalo?». Niente da fare. I nostri lavori non lo interessavano. Finito il «bianchino», uscimmo; forse senza nemmeno salutare. La pioggia era cessata, l' aria fredda e l' umidità si avvertivano fin nelle ossa. Il rifiuto rese manifesta quella delusione di come era andata la mostra, che sino a quel momento era rimasta nell' aria. «Questi stronzi di borghesi milanesi vogliono la merda», borbottò Piero. Ci lasciammo, salutandoci sottovoce. Era stato Baj a farci incontrare, Manzoni e io (Castellani si sarebbe aggiunto poco dopo in occasione della mostra alla Galleria Pater di Milano). Enrico diceva che avevamo affinità di idee e che, per questo, eravamo due rivoluzionari. Insieme potete far molto, aggiungeva. Eravamo nel 1957. Manzoni proveniva da una esperienza in ambito di quella figurazione surrealista che andava ricercando una particolarità di accenti e di definizioni col Movimento arte nucleare, fondato e capeggiato da Baj e Sergio Dangelo. Forse più che un incontro di idee fu, dapprima, un incontro di due giovani artisti che per vie diverse giungevano alla constatazione di una sproporzione fra quello cui aspiravano e gli esempi offerti dall' arte del momento e dalla quale volevano differenziarsi a tutti i costi. Si sviluppò anche una fraterna amicizia. Giornate di discussioni interminabili: idee, progetti, invenzioni. Guardando adesso la produzione di allora, è evidente una certa influenza informale, dovuta forse anche al desiderio di sopravvivenza. Gli Acrome di Manzoni, per esempio: la superficie bianca composta a riquadri che affiorano, la tela passata in una soluzione di caolino, oppure la superficie bianca di una tela imbevuta di caolino, che l' attraversa facendo delle pieghe tra le quali la luce sommuove il bianco e crea gradazioni con ombre e penombre. Esperienza, questa, che Manzoni pensò di superare rinunciando a tela e caolino degli Acrome per «tele» che fossero solo ed esclusivamente tele, per passare poi a materiali diversi quali lana di vetro, bambagia di cotone, polistirolo. L' invenzione passata così attraverso una «rivolta» e una citazione ironica, fino allo sberleffo. Diversamente da oggi, non erano molte le possibilità che si offrivano ai giovani artisti perché potessero mostrare gli esiti delle loro ricerche. Da qui, l' ansiosa attesa d' un qualche interlocutore che sapesse ascoltare. Anche se, in verità, della critica milanese, Gillo Dorfles e Guido Ballo guardavano con attenzione le ricerche dei giovani artisti. Per noi, vecchia figurazione e nuova figurazione non meritavano rispetto. Le consideravamo, appunto, merda. L' unica cosa accettabile era l' Informale. Devo aggiungere che non trovo esatto - anzi lo giudico del tutto arbitrario - fare di Manzoni l' anticipatore dell' Arte povera. Restando ai fatti, per Piero si dovrebbe fare riferimento al Dadaismo, sia per il gioco dissacratorio, che per l' uso dei materiali in quanto tali. Lontano, quindi, da intendimenti «costruttivi» ed estetici, salvo occasionali cadute. Sberleffo e ironia non appartengono certo all' Arte povera. Qualche tempo dopo l' episodio del Giamaica mi raggiunse una telefonata di Manzoni: «Passa da me, devo mostrarti qualcosa». Lo stesso giorno mi recai in via Fiori Oscuri (dove aveva lo studio, prima di passare in via Fiori Chiari). Castellani mi aspettava davanti al portone. Salimmo le scale. Piero ci accolse sorridendo: «Ecco», disse con aria soddisfatta mostrandoci quella che doveva essere una scatola di conserva alla quale aveva sostituita la fascetta con un' altra in cui aveva scritto a mano Merda d' artista. Alla nostra sorpresa iniziale, seguì una grande risata di approvazione entusiastica e incondizionata. In seguito, quando la Merda d' artista divenne un multiplo, la parola venne stampigliata. Negli ultimi decenni, sono stati in tanti a chiedersi che cosa veramente contenga la scatoletta. Certo non la materia organica dichiarata. Se così fosse, prima o dopo il metallo si corroderebbe provocando una fuoriuscita. Posso tranquillamente asserire che si tratta di solo gesso. Qualcuno vuole constatarlo? Faccia pure. Non sarò certo io a rompere le scatole. 

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